Il Messaggero, 28 novembre 2016
Ezio Sclavi, l’artista calciatore
«In Italia c’è un’eredità nobile nel rapporto tra arte, letteratura e calcio. Penso ad uno come Pasolini. Non c’è niente che spieghi Pasolini quanto il suo modo di giocare a pallone». La frase, un po’ ad effetto, di Adriano Sofri, coglie però nel segno. Da Leopardi alle liriche di Saba sul gioco del calcio, l’elenco potrebbe farsi lungo. Ma si tratta pur sempre di letterati che hanno amato il calcio, non di calciatori che sono diventati artisti.
Ezio Sclavi, in questo senso, rappresenta un caso unico. Portiere della Lazio, della Juventus e della Nazionale, negli anni Venti fu uno dei più famosi giocatori italiani. Ancora in attività, cominciò a dedicarsi alla pittura con risultati così eccellenti da entrare tra i membri di quella Scuola Romana che annovera artisti come Mafai, Cagli, Capogrossi e Carrà.
Poi, dopo la sua morte, fu rapidamente dimenticato. Ed è merito di Fabio Bellisario, architetto e storico dell’arte, avergli restituito visibilità, pubblicandone una biografia che sarà in libreria a 50 anni dalla morte (F. Bellisario, Ezio Sclavi portiere pittore, Eraclea, euro 16,50).
La storia di quest’uomo rude e gentile potrebbe rappresentare un soggetto da romanzo. La sua vita di successi inizia con una storica sconfitta: a 14 anni, in piena Grande Guerra, falsifica i documenti per arruolarsi e fa in tempo a partecipare alla battaglia di Caporetto.
Da Stradella, dove aveva mosso i primi passi come portiere, approda a Roma nel 1923 per il servizio militare. E quando nota che i commilitoni che praticavano sport godevano di un regime di permessi invidiabile, tenta anche lui di entrare in una squadra di calcio.
Caso volle che fosse chiamato a montare le tribune per la finale del campionato tra Lazio e Genoa. Il presidente della Lazio Ballerini, un personaggio mitico decoubertiniano di ferro, lo si vede ritratto, in una foto celebre, nel gruppo di giudici di gara che sostengono Dorando Petri mentre taglia stremato il traguardo alle Olimpiadi del 1908 – alla sua richiesta di sostenere un provino oppone un rifiuto. Ma pochi mesi dopo, dopo averlo visto giocare, ci ripensa. L’anno dopo Sclavi esordisce in serie A.
LA CARRIERA
È l’inizio di una carriera che salvo una breve parentesi juventina lo trasforma per 13 anni nella bandiera di quella Lazio che gli regalerà gloria e notorietà.
Ma Sclavi è un personaggio inquieto e curioso. La sua faccia da pugile comincia a comparire non solo sui campi da gioco, ma anche in piazza del Popolo, a via Margutta, nei ritrovi degli intellettuali romani lungo il Tevere. Inizia a frequentare scrittori come Moravia, Elsa Morante, Bontempelli e Gatto, e i pittori di quella Scuola Romana che muoveva allora i suoi primi passi: soprattutto quel Corrado Cagli, nipote di Bontempelli, con cui avvia un sodalizio artistico.
Dai primi disegni del 1929 la carriera artistica di Sclavi ha un’accelerazione imprevista. E il 9 dicembre del 1933, quando la Scuola Romana espone per la prima volta su un palcoscenico internazionale, la celebre Galerie Bonjean di Parigi, riserva uno spazio anche a Ezio Sclavi, il portiere artista. Che viene accolto dai critici con sorpresa e apprezzamento. La sua pittura ha forme espressioniste, primordiali, un’energia tutta propria, seppure tecnicamente ancora passibile di perfezionamento. Il che non gli impedisce di tornare in Italia e presentare mostre personali in Gallerie famose, come quella della Cometa, dove si riunisce il cenacolo della Contessa Pecci-Blunt, aperta alle novità artistiche e invisa al regime.
NUBI
Il 1936-37 porterà nere nubi sulla storia di Sclavi. Un infortunio al ginocchio lo costringe a chiudere la carriera sportiva. Le leggi razziali gli strappano l’amico Corrado Cagli, costretto, in quanto ebreo, a riparare a Parigi.
Sclavi allora si trasferisce in Etiopia: con i soldi guadagnati nel calcio compra dei camion e mette su ad Addis Abeba una ditta per lo smaltimento dei rifiuti. La guerra pone fine alla sua attività. Nel 1941 gli inglesi lo internano in un campo di concentramento. Ci resterà sei anni, per tornare in Italia nel 1947, senza una lira in tasca. La sua terra d’elezione, da allora, sarà la Riviera Ligure. Da Arma di Taggia, ospite della sorella, Sclavi torna ai suoi antichi amori. Si mette a insegnare calcio e riprende regolarmente a dipingere, avvicinandosi a quello stile informale allora in voga in Italia.
RADICI
Sono forme bizzarre che lui chiama radici: colori dell’anima, paesaggi guardati più con la lente del ricordo che con gli occhi, composizioni astratte dai colori vivi, espressionistici. La ricerca di qualcosa che sia capace di mettere insieme i pezzi di una vita vissuta tra le passioni più diverse e l’inquietudine di un enigma mai risolto. Il tentativo di comprendere, come aveva scritto di lui Carlo Carrà nel 1933, «qualcosa dell’inesausto mistero della vita e delle forme». Sarà per questo che la sua ultima opera, realizzata poco prima della morte, nel 1968, quasi un disegno infantile, rappresenta la chiesa della sua infanzia, il ritorno a una fanciullezza che è come il tentativo di trovare sintesi e pace alla fine di un viaggio bizzarro e intenso.
L’ULTIMA ESPOSIZIONE
La sua ultima grande mostra, alla Galleria del Babuino nel 1966, era stata aperta da un intervento di Alfonso Gatto, che tra le altre cose, diceva: «Sclavi si inseriva in questo discorso aperto, e sembrava dirci che era nell’occhio, più che nella mente, il segreto della sua vista Una volta scrissi di lui, portiere tra i più indimenticabili, che era brutto, brutto e reale come sono gli uomini. Non potevo fargli elogio migliore: allo stesso modo che di lui pittore voglio dire che è testardo, credente, solitario come sono o dovrebbero essere i poeti».