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 2016  novembre 27 Domenica calendario

«Quando suono cerco l’irripetibile». Intervista a Maurizio Pollini

Il mistero di Maurizio Pollini è il mistero della musica. Entrambi si esprimono come se fosse l’invisibile a dover essere portato alla luce. L’uomo è proverbialmente schivo. Penso alla sua ritrosia e al contempo alla sua leggendaria tenacia nello studiare un’opera in una interminabile sequenza di passaggi mentali e fisici. Mi chiedo se questa medesima tenacia non possa essere applicata al maestro per studiarne, che so, il timbro della voce, il profilo del volto, l’agile forza delle mani, per poi progressivamente scendere più in profondità in quella zona impercettibile che chiamiamo inconscio o anima, fonte di gioia e dolore. Qual è il patimento di quest’uomo che per tutta la vita – come in un romanzo di Bernhard – ha approfondito un solo ricchissimo gesto, ricavandone una vastità di echi impressionante? Il signore che mi è di fronte, in un tardo pomeriggio milanese, si mostra nella gentilezza del disincanto, quasi a indicare che è qui davanti a me, ma che potrebbe benissimo essere altrove. Da poco ho ascoltato l’opera che la Deutsche Grammophon ha raccolto del suo intero lavoro. Una magnifica impresa che stupisce non già per vastità quanto per intensità con cui esegue il suo repertorio.
Maestro è contento?
«Di che cosa?».
Alludo alla raccolta discografica della sua opera.
«Un bell’omaggio che mi dà l’idea di un fiume che scorre. Anche se l’opera di una vita non è mai uniforme. Ci sono svolte. E poi ogni esecuzione è diversa. Questo, se vuole, è il limite del disco: la fissità. D’altronde, il grande pregio del disco è di raccogliere le testimonianze di grandi interpreti che non ci sono più».
Cosa la interessa della musica?
«Tutto. E il tutto si racchiude nella sua ineffabilità. Quando suono so di essere alla ricerca di qualcosa che è irripetibile. È il lato affascinante della mia vita di musicista. La sola cosa che deve apparire».
Non ama parlare di sé.
«Ciascuno deve potersi esprimere con gli strumenti che ritiene più congeniali».
Che valore dà alla parola?
«Lo stesso valore che darei alla musica, quando entrambe sono necessarie».
C’è un’arte del discorso.
«Non credo che mi appartenga, del resto cosa dovrei raccontare? La musica nella sua essenza è irraccontabile. Ogni grande gesto artistico si può intuire, percepire, ma al dunque rimane inaccessibile».
Che cosa resta?
«Resta un’emozione e quella pellicola sottilissima che chiamiamo la successione degli eventi. Che talvolta vediamo e svolgiamo. Tentiamo di dare un ordine logico o una giustificazione alle cose che accadono, ma tutto questo coinvolge solo in parte la nostra zona interiore».
Non crede che la sfida sia quella di raccontarsi nel profondo, così come nel profondo si vuole giungere alla musica?
«Umanamente è una bella pretesa. Se dovessi raccontarmi nel profondo, a parte che non ci riuscirei, mi sentirei ridicolo».
Perché?
«A chi dovrebbe interessare il Pollini uomo? Non sono uno spartito che deve essere letto e studiato. La vita e la musica seguono strategie diverse ed è raro che si incontrino».
Raro ma non impossibile.
«Quando accade è come se un suono segreto dischiuda e illumini l’esistenza».
Quando ha cominciato a suonare il pianoforte?
«I miei mi hanno messo alla tastiera a cinque anni. Amavano la musica. Mia madre suonava il piano, mio padre il violino, mio zio, lo scultore Fausto Melotti, suonava anche lui il pianoforte. Credo di avere assimilato tutto questo inconsciamente».
Suo padre, Gino Pollini, è stato un importante architetto.
«Partecipò al movimento del razionalismo, anzi ne fu uno degli autorevoli interpreti».
Realizzò il complesso delle Officine Olivetti a Ivrea.
«Fu un grande progetto. Un giorno mi portò a vederlo. Mi sentii orgoglioso per lui. Orgoglioso di quella mano che stringeva la mia».
Anche la musica ha le sue architetture.
«Ma sono più segrete. Direi metafore di una costruzione».
Segreti e silenzi, questo è Pollini?
«Discrezione e silenzio, correggerei».
La musica l’ha aiutata in questo?
«Non la ridurrei ai tratti antropologici, ma certo il silenzio è una componente musicale. E anche il segreto lo è».
Segreto come impenetrabilità di un’opera?
«Preferisco la parola inesauribilità. Solo ciò che è inesauribile è grande e vitale».
Quando andò al primo concerto?
«Avevo credo dieci anni, mi nascosi in un palco della Scala. I bambini non erano ammessi. Toscanini dirigeva Wagner. Non ero maturo e non compresi pienamente, ma sentivo che quel mondo poteva essere anche il mio».
La sua prima esecuzione?
«A nove anni in casa. Poi il debutto nel 1958 alla Scala, avevo sedici anni ed ero molto emozionato».
Due anni dopo affronta il prestigioso Concorso pianistico a Varsavia.
«Fu una specie di torneo con un’ottantina di concorrenti. Durò tre settimane. Fu una sorpresa vincerlo».
Ma non per coloro che l’ascoltarono. Restò celebre l’elogio che le riservò Rubinstein.
«Si è molto esagerato e travisato sulla frase che pronunciò».
Cosa disse esattamente?
«Che tecnicamente suonavo meglio dei componenti della giuria. Credo che volesse prenderli in giro più che farmi un elogio. Comunque apprezzai».
Non le disse altro?
«Mi parlò dell’importanza pianistica che ha il peso del dito medio. Per farmi capire lo premette sulla mia spalla e aggiunse: io suono sempre con questa forza ed è il motivo per cui non mi stanco mai. Si trattava di un consiglio tecnico».
C’è un’immagine che la ritrae mentre scende dall’aereo di ritorno da Varsavia avvolto da un bavero di pelliccia.
«Faceva freddo a Varsavia. All’aeroporto di Milano c’erano ad accogliermi autorità e giornalisti. Improvvisamente divenni un personaggio pubblico. Cominciarono a invitarmi da tutto il mondo».
Come reagì?
«Non ero assolutamente preparato all’impatto. Decisi perciò di cancellare gli impegni e di ritirarmi dalle scene per un paio di anni. Volevo dedicarmi allo studio. Ricordo che in quel periodo andai a perfezionarmi con Arturo Benedetti Michelangeli. I suoi consigli tecnici furono importanti».
Che uomo conobbe?
«Difficile dire. Parlava pochissimo. Le sue parole erano impalpabili come il suo suono».
La definiscono un pianista chopiniano. Si riconosce?
«So che è un grande elogio, visto cosa ha rappresentato Chopin, ma lo trovo limitativo. In fondo se osserva la mia carriera pianistica vedrà molte altre cose».
Questo cofanetto della Deutsche Grammophon ne è la riprova. Molto Beethoven, qualcosa di Bach, Mozart, naturalmente Chopin, Schumann, Brahms. C’è anche l’incursione nella musica moderna: Schönberg, Stravinskij, Webern ma anche Manzoni e Nono.
«C’è anche Debussy le cui straordinarie novità aprono la via ai compositori moderni».
Perché il moderno è vissuto come una frattura?
«Rappresenta l’uscita dalla tonalità, il che ha creato qualche problema nell’ascolto. Il pubblico non era abituato, e forse non lo è tutt’ora, alla dissonanza. È il mio cruccio».
Può apparire strano oggi, vista la riservatezza, il suo passato impegno politico. Come giudica o ricorda quel periodo immediatamente dopo il Sessantotto?
«Non fu un impegno politico, fu un impegno civile. L’indignazione nasceva per quello che stava accadendo a livello internazionale con la guerra del Vietnam, ma anche per le posizioni repressive messe in campo dall’Unione Sovietica».
Con Luigi Nono e Claudio Abbado deste vita a una stagione di impegno. Irripetibile?
«Direi di sì. Paolo Grassi ebbe allora l’idea di una serie di concerti alla Scala per studenti e lavoratori. Andammo avanti per alcuni anni con una qualità altissima. Non hanno avuto nessun seguito. Di qui la delusione».
Ha un significato per lei la politica?
«Dovrebbe tendere al bene comune. Accade il contrario».
Quando non suona che cosa fa?
«Passeggio, sto con mia moglie e mio figlio. Leggo».
Che cosa legge?
«Mi oriento sui classici. Mi piacciono le grandi architetture letterarie: Balzac, Shakespeare, Proust. Quando leggo sono metodico. Qualche anno fa, un po’ per scommessa, con mio figlio abbiamo cominciato a leggere i classici in greco. È stato bello, come tornare sui banchi di scuola».
Le manca la sua infanzia?
«No, non riesco a pensarla pienamente. È stata. Punto. Del resto non ricordo mai molto bene il mio passato perché è un esercizio che non faccio quasi mai. Ho soltanto un sentore vago di ciò che ero».
Come guarda al futuro?
«Con una certa apprensione. Sento dire che non abbiamo più futuro. Non è vero. Ci sono forse meno persone capaci di interpretarlo».
La musica può aiutare?
«Non lo so. La grande musica crea rotture e continuità nel tempo. Gli è sopra e gli è dentro. Diceva Abbado che questo ci rendeva dei privilegiati. A lui mi legava un’amicizia che precedeva il nostro rapporto professionale».
A quando risale?
«Avevo dodici anni e lui nove più di me. Un ragazzo straordinario con cui era bellissimo conversare. L’intesa musicale è venuta dopo».
La sua assenza pesa?
«Non vorrei fare discorsi tristi. Nella vita ci sono state altre persone importanti. Claudio ha lasciato un vuoto sia nella musica che personale. Nella nostra giovinezza si andava spesso al Piccolo Teatro a seguire Strehler. E poi la musica, ci ha legati a lungo. Fino alla fine. Ci sono storie che sfidano il tempo».