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 2016  novembre 27 Domenica calendario

L’Italia vista dagli zerbini

La polvere è il Male. Amelia, la donna delle pulizie, è Dio: che dal male ti libera con la misericordia del suo battipanni. È La religione dello zerbino secondo un racconto di Vincenzo Cerami. Il mondo cambia senso, visto dal pavimento di un pianerottolo. Noi quasi non li vediamo, i tappetini da ingresso, ma loro ci parlano. Sottomessi, deferenti, ci accolgono con un welcome, e noi ingrati ci puliamo le scarpe strofinandogliele in faccia. Sinonimo della bassa autostima, antonomasia dell’umiliazione, metonimia di Fracchia e Fantozzi: la sindrome dello zerbino è una nota psicopatologia. Lì, sotto le nostre suole, tra filamenti frusti, non si annidano solo gli acari, ma anche le radici della nostra socialità. Arredo privato in luogo pubblico, lo zerbino è la reificazione simbolica di uno dei valori più in crisi del presente: l’accoglienza. Lo zerbino è la superficie transazionale dove l’individuo privato incontra l’Altro. È un marcatore di soglia. L’antropologo Marco Aime conferma: «Lo zerbino impone un rallentamento: indica il luogo dove ci si sofferma, ci si incontra, dove entrando ci si presenta, dove uscendo si fa l’ultima chiacchiera». Lo zerbino detta un comportamento. Dice: entra pure, sei il benvenuto, ma lascia fuori la sporcizia. Non è accogliente senza condizioni: è un filtro. Forma concreta del patto tra ospitato e ospitante, presuppone il rispetto dei ruoli. Nello spazio sopra lo zerbino si svolge una contrattazione, uno scambio. Quindi lo zerbino è uno spazio politico. Conflitti inclusi. A Ferrara in aprile ignoti hanno bruciato lo zerbino di un leghista, a Montesilvano l’anno prima quello di una famiglia di nomadi: teppismo metaforico? Roma, Garbatella. Condominio di sette piani, anni Sessanta. Saliamo le scale. Cinque zerbini “parlanti” ( Welcome, Bonjour), cinque con disegnini allegri (fiori, farfalle, elefantini), tutti gli altri sono monocolori o a disegni geometrici. Solo due porte su ventisei non sono presidiate dallo stuoino. E c’è poco da fare, quelle ti danno la sensazione che dietro ci sia una casa fredda, disabitata, inospitale. Ripetiamo l’esperimento a Milano, palazzo umbertino, qui gli zerbini non erano previsti, li hanno messi a forza tra porta e gradini, a rischio inciampo, e nessuno manca all’appello. A Bari c’è una gara allo zerbino spiritoso, gufetti e cuoricini. A Bologna, zona universitaria, riconosci l’appartamento degli studenti dallo zerbino parlante ( «lascia qui scarpe e problemi»). E così a Genova, Napoli, Firenze: in centro o in periferia, villette a schiera o casermoni dormitorio, i renitenti sono ovunque una minoranza, in media uno su dieci. La porta senza zerbino la trovi soprattutto agli estremi della scala sociale: nelle baracche e nelle ville milionarie, dov’è inutile per eccesso o difetto di sudiciume. Calcolando il numero di abitazioni occupate, in Italia dovrebbe essere in servizio permanente effettivo un esercito di ventisei milioni di zerbini. Gigantesca bacheca sociale, campo semiotico appassionante. Perché lo zerbino non è solo un pratico dispositivo igienico. È un segno. È targa, cartiglio, placard. Questo gli italiani l’hanno scoperto di recente. «Era un accessorio utile ma antiestetico, è diventato un segno di distinzione», ti conferma Luca Facchini, la cui l’azienda di famiglia nel bresciano è da trent’anni “leader della zerbinistica”. Gli americani, che fanno proiezioni di marketing su tutto, calcolano per il doormat un mercato mondiale che nel 2020 varrà quasi sette miliardi di dollari, con crescita annua del 4,8 per cento, roba da Pil pre-crisi. Si vendono bene quelli con le scritte, la società della condivisione virtuale ha riscoperto un display fisico che funziona benissimo come biglietto da visita. I designer si stanno svegliando, i cataloghi di zerbini trendy sono godibilissimi: “Hai portato il vino?”, “Oh no, ancora tu!”, “Scusate, è tutto in disordine”… Vanno forte quelli personalizzati, esclusivi, su ordinazione: «Soprattutto al Sud li chiedono col cognome». Ma lo zerbino porta messaggi anche quando è solo un rettangolo di fibre color corda. In un’indagine di Montalbano, Un covo di vipere, lo stuoino disposto in un certo modo è il segnale di via libera all’amante furtiva. Nella realtà, ogni estate la polizia consiglia a chi parte per le vacanze di chiedere alle imprese di pulizie di non lasciare lo zerbino arrotolato, «perché diventa un segnale di assenza prolungata» e i topi d’appartamento li sanno leggere, i segni. Ma lo zerbino è anche conflitto. Le liti condominiali scatenate dagli zerbini non si contano. Zerbini prepotenti: «Invade lo spazio davanti alla mia porta!». Zerbini sconvenienti: «Il colore stona!». Zerbini pericolosi: «Se mi fa inciampare, a chi chiedo i danni?». Zerbini contesi, rubati, rovinati per vendetta… La storia spiega. Zerbino, dall’arabo zirbiy: stuoia. Parente povero della grande famiglia dei tappeti orientali. Che sono oggetti trascendenti: creano spazi sacri (tappeto di preghiera), trasportano verso altri mondi (tappeto volante). Il mousepad dei computer non è lo zerbino sulla soglia del mondo virtuale? Tappeto è magia, mistero. In un racconto di Philip Dick, il tenente Fulton crede di pulirsi gli stivali su un tecno-zerbino a ultrasuoni: invece è una forma di vita aliena che gli spolpa i piedi. Il simbolico è in agguato. Rivelano i rivenditori che molte grandi imprese esitano a brandizzare col proprio logo il nettapiedi all’ingresso aziendale perché «non è bello che la gente calpesti il nostro marchio». Guarda dove metti i piedi. Il red carpet, zerbino che conduce alla fama, è ancora il tappeto di porpora che Clitennestra stende davanti ad Agamennone reduce da Troia, e che lui esita a calpestare: “Sopra tappeti versicolori muovere io, mortale, non so senza timor” (ha ragione, quel rosso allude al sangue che presto verserà). Lo zerbino è di stirpe nobile, raffinata, intellettuale. Lo zerbinotto, per il vocabolario, è un “giovane attillato e galante, bellimbusto, damerino”. Zerbino è uno dei rari cavalieri dell’Orlando Furioso su cui non infierisca l’ironia dell’Ariosto; ed è innamorato, lui cristiano, della seducente saracena Isabella: di nuovo un incontro con l’Altro. Ma è ancora tempo di soglie? La politica, che è simbologia al lavoro, sembra aver scelto un’altra metafora per l’accoglienza: il muro. Lo zerbino diventa scomodo, segnala un varco nel muro. Eppure non è proprio il suo opposto. Lo zerbino è un doganiere dell’osmosi umana, fa passare ma fissa le regole: sarai accolto, ma rispetterai il luogo che ti accoglie. Sembra solo galateo di pianerottolo, bon ton condominiale. Invece lo zerbino è una piccola utopia politica nell’era delle migrazioni planetarie.