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 2016  novembre 27 Domenica calendario

Il magnetico «barbudo» che stregò pure Andreotti

Per dire la potenza delle suggestioni ideologiche: esiste un certo numero di maschi italiani che nell’arco di due o tre generazioni sono stati battezzati e dunque risultano iscritti alla anagrafe come Fidel. E ancora oggi non c’è dubbio che suoni quale tributo al “Líder Máximo”, altra espressione che dall’epopea castrista entrò di prepotenza nel gergo della politica e del giornalismo, pure dilagando nell’iconografia: e in questo senso, pure di sfuggita, varrà la pena di ricordare che il Patto del Nazareno fu siglato da Renzi e Berlusconi sotto un poster di Castro che giocava a golf. Dunque Fidel, che riuscì a riscaldare il cuore del più freddo e scettico fra i potenti italiani, Andreotti: «Quando sorride – scrisse di lui il Divo – non sembra la stessa persona che il giorno prima minacciosamente tuonava». Strano ma vero, i due si piacquero. O forse Fidel era in grado di conquistare chiunque, nel caso specifico riscaldando la fama di cultura e di acume dei gesuiti, presso cui aveva studiato, e mostrando in quell’occasione di conoscere «con una notevole finezza – è sempre Andreotti – la letteratura latina, con appropriati riferimenti a Svetonio e Cicerone». Una leggenda di imprevedibile fascinatore, un tornado di calore e avventurosa teatralità. Come quando volle portarsi Enrico Berlinguer a pesca, invano tentando di convincerlo che i barracuda che si aggiravano sotto la loro barchetta fossero innocui. Per due giorni quell’omone espansivo si tenne vicino lo schivo leader del Pci e oltre agli squali ci furono cene, battute, spiritosaggini, visite a sorpresa. Al terzo giorno, nella redazione di Granma, Berlinguer dovette simulare un malore: «In realtà avevo solo un gran sonno». Quando si rividero, portarono a Castro un dispaccio: un volontario cubano, fattosi maestro di scuola in Nicaragua, era stato ucciso poche ore prima dai mercenari. «Eccola la loro libertà – esplose Fidel – lo hanno fatto mettere in ginocchio davanti ai bambini e l’hanno ucciso!». Quanti ricordi. Anche Gianni Agnelli volle conoscere e invitare Castro a pranzo a casa sua, durante una visita a Roma nell’autunno del 1996. E anche l’Avvocato restò colpito da quella personalità – a parte la voce che gli suonò «fessa». Il personaggio era già piuttosto in avanti con gli anni, da un pezzo aveva dismesso i panni dell’uomo sexy che guidava “la classifica mondiale dei gridolini”, come scritto da chi deprecava l’infatuazione in salsa romantico- terzomondista che a ragione e a torto, come succede nelle pieghe della storia e della vita, afferrò moltitudini femminili negli anni ‘60 e ‘70. Il Castro delle indimenticabili interviste al chiaro di luna con Rossana Rossanda. Ma anche – e qui il comunismo c’entrava poco o nulla – l’aitante leader dei barbudos innalzato a divinità nei servizi fotografici di Gina Lollobrigida. Tanto ebbe presa sull’immaginario, quel mito di esotica virilità, che ancora nel 1990 Sandra Milo, per rilanciarsi, divulgò sui rotocalchi un presunto, ma indimenticabile flirt fotografico nella giungla con un improbabile simil-Fidel, il colonnello Ordonez. Non si conoscevano allora, o non si vollero approfondire, gli aspetti più brutali del regime cubano, le persecuzioni dei dissidenti e dei gay, la miseria profonda e la prostituzione disperata. Ma certo il colore o il calore di tanti italiani – dal maestro Abbado alla berlusconiana Katia Noventa, da Carla Fracci a Raffaella Carrà, da Salvatores a Gianni Minà fino al “Merolone” – non bastano forse a spiegare gli equivoci e i fraintendimenti di quella lunghissima stagione: la revolución vissuta qui come un’offerta votiva che dai Caraibi illustrava l’opportunità di costruire il socialismo superando la logica dei blocchi. Un socialismo allegro, oltretutto, creativo, tropicale, musicale, Que linda es Cuba e Guantanamera: «Nulla che potesse ricordare le musonerie sovietiche avvolte dalle nebbie di quei freddi paesi», proclamò a suo tempo Sergio Endrigo (che pure aveva le sue malinconie). E insomma: come sfidare l’imperialismo americano e vivere felici. O almeno questa era l’impressione, l’illusione. Con il suo berretto e la mimetica sgualcita, Fidel recava in dono all’umanità formidabili campioni di baseball e di atletica leggera, i ritmi del Caribe, un sistema sanitario modello, le spiagge di Varadero, il “Tropicana”, “Casa Hemingway”, il rhum e i sigari più buoni del mondo. A completare «la luna di miele», come la definì lo storico Eric Hobsbawm, quell’altra celebre foto di Korda che del Che fece un’icona planetaria di libertà. Nulla che potesse far sospettare le torve lotte di potere all’interno della nomenklatura o il lento ma inesorabile scivolamento nel campo d’influenza sovietica; nulla che potesse aprire gli occhi non solo sulla paralisi economica, ma anche sulle mistificazioni che la negavano rilanciando l’eterno mito di Davide contro Golia. Sta di fatto che partirono in tanti dall’Italia, con l’Aeroflot. Partirono dalle Botteghe Oscure Mario Alicata e Paolo Spriano. Partirono, più a sinistra del Pci, il professor Colletti e l’editore Savelli. Partirono, per tornare carichi di reportage, Moravia e Parise. «Quanto a Cuba – ha scritto Nello Aiello ne Il lungo addio (Laterza, 1997) – divenne meta privilegiata di viaggiatori liberal, quasi superando, in questo ruolo, la stessa Cina di Mao». Partì il giovane studente di architettura Renato Nicolini, per un convegno che nel documento finale fissò l’assioma: «Il primo dovere degli studenti d’architettura è di combattere l’imperialismo americano». Ma più di chiunque altro era partito per Cuba Giangiacomo Feltrinelli. E mai come nel suo caso, leggendo il libro del figlio Carlo ( Senior Service, Feltrinelli, 2000) e la documentatissima biografia, Feltrinelli, di Aldo Grandi (Baldini & Castoldi, 2000) si capisce come la Cuba di Castro sia stata una scoperta, una conquista, un’emozione, una speranza, una boccata di ossigeno. Una passione, insomma: certo politica, ma forse prima ancora esistenziale. Feltrinelli arrivò nei primissimi anni ‘60 con l’intento di pubblicare le memorie di Castro, ma invano, giacché questi intascò i dieci milioni di lire d’anticipo per acquistare un prezioso toro di razza Holstein con l’idea di migliorare la zootecnia dell’isola. «Cuando se hace la historia – spiegò in seguito – no se puede escribirla». In compenso l’editore divenne amico del “Líder Máximo”, e a lui si devono fantastiche e meticolose descrizioni del modesto condominio appartamento in cui viveva quella leggenda vivente, il cinturone e il revolver abbandonati sulla poltrona, il terrazzo con le galline e il cesto da basket, la nota e irrefrenabile logorrea. Poi, come accade, anche Castro passò un po’ di moda. Il mondo, anche quello delle idee, prese altre forme. E neanche troppo lentamente l’aureola che luccicava attorno a Cuba perse fascino, allegria, energia, e parecchi che l’avevano venerata si acconciarono all’idea che quella figura di demiurgo rivoluzionario si poteva senz’altro consegnare alla storia del XX secolo, ma anche per aver instaurato una immobile tirannia. Quando alla metà degli anni ‘90 venne a Roma per una conferenza della Fao, Fidel ancora strinse mani e firmò autografi per quasi tutta la mattina. Ma il comunismo era ormai poco meno che un ricordo. L’anno seguente, a Cuba, al termine della messa, il “Líder Máximo” lievemente s’inchinò dinanzi alla benedizione di Giovanni Paolo II. La lunga malattia, il plausibile rimbambimento, la soluzione dinastica non hanno cancellato, ma certo un po’ ridimensionato il mito. La pace con Obama assomigliava addirittura a un lieto fine. Però la storia è più complicata, e ancora una volta per cercare di capire non basta che muoia qualcuno, ma avanza sempre qualcosa da rivedere con occhi nuovi.