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 2016  novembre 27 Domenica calendario

La stella polare della rivoluzione

Nell’interminabile addio di un tempo che non vuole lasciarci, l’ultimo eroe del XX secolo, Fidel Castro, scompare proprio mentre alla ribalta del potere americano assurge un nostalgico di quel secolo che vorrebbe resuscitare: Donald Trump. Nell’incrocio fra vita e morte, nella presa di un secolo che non finisce mai, di quel mondo che comincia sul Rio Grande e finisce nella Terra del Fuoco, Fidel Alejandro Castro Ruz era stato per 50 anni il sogno e l’incubo.Come l’avversario che non avrà è il sogno e l’incubo del “Grande Norte”, dell’Altra America oltre il Muro. Due figli del passato, Fidel e Donald, che non potranno incontrarsi nel futuro. Castro era il venerabile dinosauro sopravvissuto all’era che lo aveva creato, all’utopia di una rivoluzione globale sconfitta dalla globalizzazione del capitalismo e segnato dalla suprema ironia di quelle due bandiere, la cubana e l’americana tornate a sventolare nell’agosto del 2015, sulle opposte capitali. Un nemico, un idolo, ma un uomo che è stato impossibile da ignorare, da amare, da detestare, e sempre da rispettare. Morto dopo essere stato costretto, dal fratello, non dal nemico, ad accettare recalcitrante, brontolante, una normalizzazione che ora quel Trump che era già un teenager quando Cuba divenne comunista, potrebbe rinnegare. All’Avana è scomparso l’ultimo vero comunista giurassico, portandosi via in quel corpo divenuto fragilissimo e inoffensivo a 90 anni il sogno fané come il suo volto scolorito di un’ideologia nella quale soltanto lui ancora credeva, se ancora ci credeva, insieme monumento e prigioniero di se stesso. Il mondo non avrà più un Castro da maledire o da invocare e nessun altro di coloro che restano aggrappati all’aggettivo comunista, non il grottesco e feroce bamboccio eremita arroccato nella penisola coreana, non le varie “dittature di sviluppo” asiatiche, non gli addomesticati comunisti da “talk show” televisivo o da facoltà accademiche, potrà mai prendere il suo posto. I dittatori, nella storia di ogni continente e di ogni ideologia, si vendono a mazzetti. Castro era un “unicum”, un pezzo unico, come unica è stata la presa sull’immaginazione del mondo che questo figlio di un benestante piantatore galiziano di zucchero emigrato a Cuba possedeva. È stato la coda che ha agitato il cane, il signore di un’isola adorabile e infelice grande poco più di metà di quella Florida incombente su di essa appena oltre il giardino, che da scantinato sordido del Caribe, da bordello dell’America e delle sue multinazionali, aveva saputo trasformarsi nella spina inestirpabile conficcata nella zampa dell’elefante “yanqui”. Ma con un’ultima vittoria finale, che il tempo soltanto dirà se vera vittoria fu: sulla caduta del Muro d’Acqua negli Stretti della Florida ha potuto dire, dal proprio sontuoso palazzo nel quartiere Miramar dell’Avana, di essere sopravvissuto ai dieci presidenti americani che hanno cercato invano di abbatterlo, Eisenhower, Kennedy, Johnson, Nixon, Ford, Carter, Reagan, Bush il Vecchio, Clinton, Bush il Giovane, fra la disastrosa voglia di eliminarlo con invasioni da operetta e le operazioni segrete da filmetto di spionaggio. Fino al “basta” ordinato da Obama. Un eterno “Redivivo”, fanatico di baseball, tifoso degli Yankee di New York per i quali si era illuso di potere giocare, fra gli estremi della possibile catastrofe nucleare scatenata nel 1963 dalla sua decisione di trasformarsi in piazzola per i missili di Krusciov ai dispettucci infantili dei voli charter tra Miami e l’Avana concessi e negati, secondo i diktat della lobby cubana in Florida che oggi esulta. Forse senza rendersi conto che era la “Questione Cubana”, era l’aborrito Fidel, a rendere rilevante quella Little L’Avana che dopo Castro sarà soltanto un’altra minoranza etnica fra tante, nella insalatiere delle culture e delle razze. Resistere per mezzo secolo alla furia di un elefante esasperato, lontano appena 90 miglia di mare, è ciò che ha fatto di Fidel Castro la stella polare di tutti coloro che nel mondo, e non soltanto in quello latino, guardano a Washington come alla sorgente di ogni nequizia. In un continente che produce demagoghi scamiciati, capipopolo, guerriglieri, trafficanti, generali torturatori, politicanti rapaci e corrotti, tribuni di una sera che si succedono e si annullano con la violenza degli scrosci d’acqua nelle foreste andine, un uomo che sappia restare alla guida di un’isola come Cuba per due generazioni raggiunge la semplice santificazione della sopravvivenza. Fidel non ha vinto la grande scommessa con la storia, quella di essere l’acciarino “rivoluzionario” che avrebbe cambiato il mondo o almeno il proprio emisfero, come sognava il suo nemico e insieme figlio, il Che, e come lui tentò di fare dissanguandosi con le avventuristiche spedizioni di truppe in Africa per cambiare i regimi degli altri. Ma ha vinto la scommessa con l’adorata e odiata America, restando al proprio posto fino a quando, nell’impari duello gridato su ogni muro dell’isola, “Socialismo o Muerte”, è stata l’America del Nord, non lui, a sbattere le palpebre per prima. E soltanto a Sud della magica e tragica frontiera americana con il Grande Norte, nelle acque di quel Caribe che è il liquido amniotico di tutti i sincretismi religiosi, culturali, musicali, razziali afro-europei e di tutti i voodoo venerati su quei finti altari cattolici davanti ai quali anche Giovanni Paolo II, Benedetto XVI e Francesco si inginocchiarono fingendo di non sapere, un personaggio come Fidel Castro era pensabile. Un borghese colto, e cresciuto nella buona società cubana fino alla laurea in Giurisprudenza, che diventa il tormentatore della borghesia cubana. Un figlio illegittimo, “bastardo” come si diceva allora, del piantatore galiziano di zucchero e di una domestica, Lina Ruz González, che il padre si decise a sposare dopo l’annullamento del matrimonio, ma non prima che la fedele Lina gli avesse dato ben sette figli, quattro femmine, Angelita, Juanita, Augustina, Emma e tre maschi, Ramon, Fidel e quel Raul che nel 2006 ha ricevuto il timone dal fratello morente, condannato per tutta la vita a essere migliore degli altri per legittimarsi. Un ragazzo tormentato dai coetanei, perché non battezzato da piccolo, ma che poi va a rifinirsi nelle scuole cattoliche private e nel liceo dei Gesuiti all’Avana, assorbendo quel marchio di rispetto e di timore superstizioso per la “Iglesia” che lo rese impettito, rigido e felice come lo scolaretto che fu, al fianco di Papa Wojtyla sulla Piazza della Rivoluzione. Uno studente facile a esaltarsi e esaltare, poi avvocato, che si volle aggiungere come secondo nome quello di Alejandro, dopo avere letto delle imprese del condottiero macedone, e come primo cognome quello della madre naturale, Ruz. Ricevendo come ultimo Papa, nella sublime ironia della Storia, proprio un gesuita, come i suoi primi educatori. È possibile che la ricerca storica, ora che il grande caballo, come i cubani lo avevano soprannominato per le sue leggendarie prodezze erotiche da stallone, chiarisca definitivamente se il giovanissimo avvocato che salì sulla Sierra per lanciare il primo assalto alla caserma della Moncada il 26 luglio del 1953 (Stalin era morto da pochi mesi tanto per dare la prospettiva temporale della sua vita) fosse un comunista travestito da nazionalista o un irredentista progressivamente spinto nella braccia del Socialismo Reale e dell’Unione Sovietica, così condannando se stesso e la sua Cuba alla morsa micidiale della Guerra Fredda. Ma chiunque abbia conosciuto anche superficialmente Cuba, l’abbia amata nella sua gente incantevole oltre le vetrine turistiche da “Hawaii Sovietica”, può avere pochi dubbi sul fatto che Fidel Castro avrebbe stravinto un’elezione autentica, un referendum non taroccato, contro qualsiasi concorrente si fosse liberamente candidato. Neppure nei momenti più amari, quando la Mosca di Gorbaciov scaricò lui e Cuba come un sacco di sassi e i monelli all’imboccatura del porto applaudivano rincorrendoli dalle banchine i pochi mercantili che ancora entravano per portare cibo in una capitale oscurata, i cubani avrebbero tradito colui che li aveva condotti al patto leonino dello scambio fra la libertà e dignità nazionale. Come in tutte le dittature e i regimi oppressi dal “culto della personalità” la gente di Cuba aveva imparato a detestare il sistema, ma a salvare colui che del regime era responsabile. La colpa della miseria e della plumbea indifferenza che avevano ricominciato a opprimere l’isola, a riportare le ragazzine per le strade a rivedere l’orrore del turismo pedofilo, a separare in “classi” di fatto coloro che riuscivano a mettere le mani sui “castrodollari”, i Cuc, i pesos convertibili buoni per i negozi veri, e coloro che dovevano campare di Cup, “el peso di mierda” dei salari di stato e di tessere alimentari, era degli altri. Del “Bloqueo”, l’embargo pur largamente bucato dai commerci con l’Europa, la Cina e il resto dell’America, insieme zavorra e involontario puntello del castrismo. O dell’esecrato “hermano” di Raúl, capo dell’apparato di sicurezza, degli sciacalli, dei gerarchi corrotti, della corte, della nomenklatura, divenuto, ironicamente, il Grande Liberalizzatore alla fine della vita dei fratelli. Mai di Fidel, intoccabile come tutti i sogni, neppure quando l’implacabile avanzare dell’età lo costrinse a rinunciare al “Cohiba”, al sigaro, e gli ricoprì con il sale del tempo il colore della barba. Lascia un popolo che con lui ha imparato a leggere, a non sentirsi più colonia, che ha pagato cara la propria dignità che lo piangerà ma, lo auguriamo ai dolcissimi cubani, non dovrà rimpiangerlo, come a volte accade ai dispotismi decapitati. Ha creato un’economia inesistente ed esangue, una sorta di isola bambina viziosa e vergine, completamente impreparata al mondo nel quale ora sarà costretta a rientrare al volante dei suoi almendrones, le carcasse dei macchinoni americani Anni ’50 rappezzati o degli ultimi sacapuntas, i temperamatite, le 600 fatte in Polonia, sonora di meravigliose musiche, ma senza uno spartito politico. Una grande nave alla deriva senza una classe dirigente, senza un successore, e sulla quale ora si potrebbero abbattere la vendetta dei gusanos, la collera dei vermi sfuggiti alle sue grinfie, come li chiamava lui, dei marielitos, dei balseros, scappati a bordo di copertoni di camion e su gusci di balsa dal porto di Mariel e la rabbia degli esuli arricchiti e pronti a tornare per esigere, come già in Polonia, nella Germania dell’Est, nell’Europa Orientale dopo il 1991, le proprietà espropriate. Il sogno, e l’incubo, sono morti, ma in realtà erano morti da tempo, scoloriti e patetici come l’omino del murale dipinto accanto alla legazione americana all’Avana con il dito puntato verso il Nord e la sua affermazione che «non abbiamo assolutamente paura di voi, signori imperialisti», levato quando si è rialzata a bandiera. Resta il sapore della tristezza, come di una magnifica occasione mai colta, di un sogno vero diventato banale, nel segno della eterna verità churchilliana: «La dittatura risolve tutti i problemi, meno il più grave, cioè se stessa». Fidel ha fatto appena in tempo a vedere l’assunzione al trono “yanqui” di un altro residuato dei miti e dei vizi ideologici del suo XX secolo, Trump, e non sappiamo se e quanto lucido fosse lo stanchissimo caballo la notte dell’8 novembre scorso e se abbia potuto vedere Trump in televisione. Ma almeno un’umiliazione gli sarà risparmiata: vedere, come monumento funerario alla sua “Revolucion” incompiuta, un trionfante grattacielo di 60 piani sul lungomare del Malecon con cinque lettere d’oro scintillanti al sole del Tropico: “Trump”.