Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2016  novembre 27 Domenica calendario

Il povero fa pietà e anche paura. L’universo fragile del Medioevo

Cos’è la povertà? Non è che la si possa definire in assoluto. Perché essa è mutevole, a seconda dei tempi e delle singole prospettive. Esistono così povertà diverse a seconda del contesto che si vive, storico o ambientale che sia. Parlare di povertà in questi termini è utile. Molto utile. Ma ci fa dimenticare un dato essenziale: che dietro di essa c’è un esercito reale, fatto di donne, uomini e bambini che rappresentano, per la loro condizione, un problema. Il problema del marginale e del diverso. Del mendicante e del malato. Del vagabondo e del menino de rua. Che va risolto. In modo articolato. Economico, sociale, etico. Pubblico. Questo vale per oggi come per le società d’ancien régime, come quella medievale.

Ripensare alla povertà nel corso del Medioevo allora può avere un senso. Non per la funzione benefica della storia in quanto ammaestratrice. No, tutt’altro. Per capire qualcosa di universale che c’è nell’uomo. Ed esercitare una forma di empatia, che ci faccia pensare a tutte quelle persone che furono i poveri del Medioevo, per comprendere i loro volti, le loro condizioni, le loro paure e il loro dolore. E, per contrasto, il mondo degli altri. Che guardano al povero con misericordia ma, al tempo stesso, con disgusto e paura. Questo è quanto racconta, in sostanza, Giuliana Albini nel suo Poveri e povertà nel Medioevo (Carocci). Che si concentra su due aspetti sostanziali: sui luoghi e sui volti della povertà medievale; e sui modi per affrontarla. Un tema non nuovo (si pensi ai lavori di Michel Mollat o di Bronislaw Geremek) che l’Albini affronta presentandoci però un Medioevo tutt’altro che monolitico e privo di nuances nel suo agire nei confronti del povero. Anzi scandito da molteplici trasformazioni, pratiche e concettuali, sul lunghissimo periodo, dal VI al XIV secolo.

Non c’è dubbio che quella medievale si può definire come una «società del rischio». A causa di tanti, troppi fattori: ad esempio, il divario nella distribuzione delle risorse; la scarsa permeabilità dei commerci, con strozzature che impedivano i flussi di prodotti alimentari; la ridotta capacità di conservazione di questi stessi prodotti; la poca igiene; la limitata attitudine ad opporsi alle malattie. Sono solo alcuni degli elementi che definiscono un universo fragile, dove era facile precipitare, in tempi brevissimi, da una condizione di precaria sussistenza ad una, gravissima, d’indigenza, di fame, di morte.

Questa è l’impalcatura, da cui Giuliana Albini trae vicende che ci avvicinano alle esistenze quotidiane, specialmente di categorie che, più d’altre, potevano subire il passaggio fatale. Al primo posto ci sono bambini e donne, i soggetti più deboli, «coloro che erano con maggiore facilità esposti alle avversità della sorte e ai soprusi dei più forti». E tra i più deboli, i debolissimi, come le vedove che, se accompagnate dal peso dei figli da crescere, si trovavano spesso in una condizione di estrema incertezza e precarietà. Certo, non bisogna immaginare che la scomparsa del marito togliesse d’un tratto alla famiglia ogni entrata, poiché la donna contribuiva spesso col proprio lavoro domestico alla sussistenza familiare; e i figli, seppure in tenera età, partecipavano, di norma, col loro lavoro, all’economia della casa. Tuttavia tanta documentazione medievale rimanda i lamenti e le difficoltà di queste donne restate sole, prive della possibilità di sopravvivere, destinate ad una vita di elemosine o di un minimo di solidarietà sociale.

Questo è l’altro punto chiave del libro. In che maniera si assistevano i poveri? Anche i volti della carità, nell’universo cristiano medievale, furono tanti e sfumati. A partire dalle forme di aiuto informale, dove si sperimentano azioni personali, spesso episodiche e provvisorie, con atti di liberalità o con le elemosine, che diventano un leitmotiv della propaganda religiosa: ne sono piene le opere d’arte, le agiografie, la dottrina. Poi ci sono i testamenti, tra cui quello del padovano Enrico Scrovegni, le cui azioni di carità hanno trovato spettacolare rappresentazione nel ciclo giottesco dell’omonima cappella. Si sale invece di grado con gli interventi, per così dire, istituzionali: ci pensano monasteri, enti assistenziali, ospedali, confraternite, città.

Dietro c’è, naturalmente, un forte impulso ideologico: un ruolo fondamentale lo giocano gli ordini mendicanti, che diventano l’elemento prodiero di una nuova concezione della carità. D’altro canto, sottolinea l’autrice, come dimenticare lo sviluppo del culto mariano con la proliferazione di confraternite che fecero dell’attenzione ai poveri uno degli elementi principali della loro azione?

Ma con l’istituzionalizzazione, comincia a mutare anche la percezione del povero. Che diventa sempre più il diverso. L’emarginato. Come scrisse senza mezze misure Michel Foucault, un escluso sociale da reintegrare dal punto di vista spirituale. Qualcuno da riassimilare non in quanto persona, ma in quanto pericoloso per la società. Questa è la china di una condizione del povero che matura nel corso del Basso Medioevo e si trasformerà, in età moderna, nei centri di isolamento dei vagabondi, dei folli e dei marginali: le carceri, gli ospizi, gli ospedali, i manicomi. Simbolo negativo della nostra quiete sociale.