Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2016  novembre 26 Sabato calendario

Odore di manganelli multicolori. Un tempo erano solo neri, oggi invece sono trasversali. Intervista a Salvatore Merlo


  Salvatore Merlo, catanese di Milano, classe 1982, tratta la politica sul Foglio con invidiabile levità. Non perché la svilisca, ma perché la tiene a bada, anche nelle sue forme più iperboliche, con un’invidiabile cultura, frutto anche di una solida formazione. La racconta senza il pathos degli opposti estremismi: l’invettiva o il servo encomio.
Spesso con ironia. Come quella riservata l’altro giorno ad Alessandro Di Battista e al suo libro edito da Rizzoli. Merlo spiega come il grillino rinfacci a Repubblica di non avergli pubblicato un reportage, quando stava in Guatemala: «E insomma Scalfari aveva niente meno che un Di Battista originale tra le mani, e non lo pubblicò. Pazzo. Non sa che si è perso».
L’intervista avviene quando le agenzie hanno da poco battuto l’anticipazione di un déja vu dell’epoca d’oro dell’antiberlusconismo: l’unfit a un premier italiano da parte di Economist. Matteo Renzi se lo becca sul referendum.
Merlo, ancorché molto giovane, lei scrive di politica da una decina d’anni. Concederà che, negli ultimi 3-4 anni, è molto cambiata.
«Mi accorgo soprattutto di un cambiamento, o di una slittamento, se vuole, che riguarda molto il linguaggio, la grammatica stessa della politica. E lo trovo inquietante».
Perché?
«Perché non si capisce se si è imbastardito il linguaggio della politica, trasferendosi alla società, o viceversa. Siamo, più o meno, all’uovo e alla gallina. Però non posso far a meno di notare alcune inquietanti similitudini, nel linguaggio, nei toni, nelle parole stesse, con altri periodi italiani».
E quali?
«I nostri anni ’20».
Ah beh, allora si scherzava poco: più che la parola c’era la mano. Anzi, il pugno.
«Eh già, ma era proprio un modo di stare insieme, la qualità della convivenza civile, che era precipitata. C’era violenza verbale, tanta, tantissima, c’era il manganello che si profilava all’orizzonte, c’era lo schiaffo a Toscanini. E la storia è ciclica».
Ci risiamo?
«Non lo so. So che, dopo quella stagione e la tragedia della guerra, fu poi tutto un rifiorire, una recuperata grazia civile, un impegno che prima pareva perso nel cinismo. Avemmo i magnifici anni ’50 e ’60, un progresso infinito, che pareva inarrestabile».
E noi, oggi?
«Noi dobbiamo capire qual è il nostro fondo. E poi a noi manca il soggetto storico, come lo furono i reduci della Grande Guerra. Credo però che avremo il nostro scivolamento e poi, la speranza di rivedere il rifiorire. Anche per il nostro lavoro, Pistelli».
C’è anche il giornalismo in questo bailamme?
«La nostra professione è inquinata e faziosa, spesso intollerante».
In quali circostanze?
«Mi riferisco all’uso dei nomignoli, al colpire i difetti fisici delle persone. Un po’ come la scrofa di Beppe Grillo, paragonata al termine “accozzaglia”, già usato dal premier verso lo schieramento del No».
Che non è esattamente la stessa cosa, diciamo.
«Sbagliato paragonarle: la scrofa è la femmina del maiale, c’è pure l’uso offensivo del genere».
Le segnalo che, a questo punto dell’intervista, lei si è già preso del renziano.
«Pazienza, io d’altra parte ho sempre più simpatia verso questo fenomeno, malgrado Renzi non sia simpatico. Mi pare però la cosa più normalmente di sinistra che vedo. Ma mi faccia tornare ai nomignoli e alla sottolineatura del difetto fisico».
Prego.
«Come si fa dire che Gad Lerner ha il naso adunco, che Renato Brunetta è un nano, che Pier Luigi Bersani è il Gargamella dei puffi? Sono i toni degli anni ’20, del pre-fascismo».
Anche il giornalismo nella trincea politica,. E perché, secondo lei?
«Perché non ci son più i personaggi grandissimi di un tempo: gli Enzo Biagi, i Giorgio Bocca, gli Indro Montanelli. C’è rimasto solo Eugenio Scalfari. Con loro stavi attento, ti leggevano».
Interessante, questo suo accostamento dell’oggi alle turbolenze di esattamente un secolo fa. Altri avvicinano i veleni di questo periodo agli anni ’70, che poi deflagrarono nel terrorismo.
«Io credo che allora, quarant’anni fa, ci fossero anticorpi che oggi non ci sono più: si sparava, sì, ma c’era la tradizione democratica, c’erano le associazioni mobilitate, c’erano i grandi partiti, il Pci, la Dc, e c’era un senso di responsabilità nella classe dirigente italiana, che stesse in politica o nel giornalismo».
Oggi?
«Oggi quella violenza del primo ventennio del Novecento è soprattutto verbale, passa da Internet: gli squadristi moderni sono gli incappucciati dei social network. L’insoddisfazione gira tutta là dentro. Elementi che non sono certo un carburante di progresso, anzi semmai sono un detonatore. E forse c’è da augurarsi che uno scoppio ci sia, perché, dopo ogni esplosione, si ricomincia, si riparte».
Ma perché in questo senso la storia italiana si ripete, Merlo?
«C’è una nostra tendenza storica a combattere piccole o grandi guerre civili: siamo un popolo di tifosi, Leo Longanesi, coi suoi fulminanti aforismi, coglieva questo carattere nazionale, che non ci scrolliamo di dosso. C’è un eccesso di passioni, si avanza per spasmi violenti. Non c’è la tranquillità fisiologica delle altre democrazie europee. Per questo sono per il Sì».
Ah, un endorsement vero e proprio.
«Sono per il Sì, perché questa riforma, sarà pure pasticciata, scritta maluccio, bisognosa di interventi successi..».
Ma?
«Ma mi inquieta questo gruppo eterogeno del No. Sono forti nel dire No, il No ha sempre una potenza espressiva maggiore, ma dov’è la pars costruens di Massimo D’Alema, Beppe Grillo e Matteo Salvini? Scrivo da una decina d’anni, ma è da quando sono nato che si rincorre la medesima riforma costituzionale e continuiamo avere un sistema lento, farraginoso. Un sistema che, nel 2016, è l’unico col doppio passaggio parlamentare per le leggi. E se diciamo No – qui torno al punto – il mondo non ci starà ancora ad aspettare».
Che cosa accadrebbe, secondo lei, se il No vincesse?
«Si innescherebbe un meccanismo di impaludamento da cui non usciremmo né velocemente né facilmente».
Spieghiamolo.
«All’origine ci sono calcoli cinici. Ognuno ha un interesse contingente: D’Alema di consumare la sua vendetta contro il ragazzino che gli ha tolto il giocattolo, ossia il partito, e con lui tutta la sinistra dem. Grillo e Salvini, che coltivano la loro bolla di malmostosi e arrabbiati».
I quali sono strutturalmente per il No.
«Ontologicamente, direi».
Ma c’è anche Silvio Berlusconi, contro queste riforme.
«Ed è incredibile, infatti. Dovrebbe votare Sì in onore alla sua storia politica e invece è per questo No ambiguo, che punta a un indebolimento di Renzi, perché sconfitto possa essere meno spavaldo e quindi più disponibile ai patti».
Un azzoppamento funzionale per farlo venire a più miti pretese.
«E te lo dicono in camera caritatis, cosa che trovo triste».
Si diceva della palude, prima. Che porterebbe a cosa?
«A una parte del No che si mette insieme a Renzi in funzione antigrillina, ma obbligandolo a una svolta proporzionalista, che andrebbe bene anche alla piccola sinistra esterna: tutti si garantirebbero la sopravvivenza parlamentare. E il successivo parlamento vedrebbe estesa al massimo la rappresentanza. Ossia, il contrario di quello che teorizza da vent’anni il Cavaliere, tuttavia..».
Tuttavia?
«Tuttavia con la palude non governa, si sa. E la frustrazione crescerebbe, diventando benzina per la logica antisistema. Quindi Grillo continuerebbe a fare quello che fa».
Ossia?
«Ossia nulla. Grillo aspetta da anni che la mela matura gli cada tra le mani. Sinora ha prosperato grazie agli errori della sinistra e di Berlusconi, che è stato un po’ ucciso un po’ no».
In effetti Grillo è stato seduto sul bordo del fiume.
«Se lei guarda gli ultimi anni, è accaduto questo. Anche la battaglia sui beni comuni, l’acqua pubblica, i servizi pubblici locali, non l’aveva fatta lui ma il M5s ci ha messo sopra la bandiera, a vittoria avvenuta.
Verso di lui hanno sbagliato in tanti.
«Anche Mario Monti, che è stato un successo tecnico, ha cioè salvato l’Italia dal default, ma è stato un pasticcio politico. E ha sbagliato anche Bersani, incapace di uscire dallo schema della guerra a Berlusconi, incapace cioè di capire che la destra comunque serve. Infatti una gran parte dell’elettorale M5s viene da lì. A volte temo che anche Renzi non lo capirà a sufficienza».
Senta, immaginiamo che il No vinca. Renzi uscirà di scena?
«Non penso proprio. Se anche perdesse, proprio per il meccanismo del “tutti contro uno”, potrà dire che lui, lui da solo, ha il 40-45% degli italiani con sé».
E non avrebbe torto. Resta da capire se, vincendo il No, alla prima impennata di spread, non cali giù la Troika.
«La vittoria del No è inevitabilmente uno scenario di instabilità. Per quanto l’Economist sisia sforzato oggi (ieri per chi legge, ndr.) di dimostrare che non succederà niente, anzi invita a votarlo. In pratica una riedizione del famoso “unfit to lead” affibbiato a Berlusconi.
I nemici di Renzi sono gli stessi?
«Maliziosamente si potrebbe dire che l’Italia debole, incasinata, quella della doppia fiducia, che non trova stabilità, dell’alto tasso di litigiosità, ferma, che l’Italia debole, dicevo, faccia comodo a molti».