La Lettura, 27 novembre 2016
Fabio Volo: «Che fine hanno fatto i sogni dei ragazzi»
Roberta Scorranese per La Lettura
Che resta di tutto il dolore che abbiamo creduto di soffrire da giovani? Niente, neppure una reminiscenza e nemmeno un «like», manco un cuoricino su Instagram a ricordarci quell’eroismo da cameretta dove l’adolescenza ci ha rinchiuso per giorni, settimane, anni, in ostaggio dei sogni. Non c’era nemmeno il sollievo della condivisione su Facebook, privilegio dei giovanissimi sognatori di oggi: le ambizioni postate assomigliano meno ad ambizioni sbagliate.
Però nello sguardo retrospettivo dei quarantenni c’è un vantaggio: proprio perché quei desideri non li abbiamo condivisi né sciolti in quel fiume di parole scritte che è la rete, proprio perché ne abbiamo vissuto le contraddizioni sulla nostra pelle, spesso in solitudine, oggi sembrano più vividi, quasi veri. Quasi seri. Da uomo intelligente e che (a differenza di molti critici) presta ascolto alla gente, Fabio Volo questo lo sa. E così, negli anni, ha creato un codice molto particolare, che cuce velleità e realtà, alto e basso, Khalil Gibran e la cotta di Serena da Parma per il biondino della Terza C.
Questo ascensore, che eleva i sentimenti più elementari (la gelosia, la mancanza, il rancore, l’affetto) a grandi tragedie narrative, ha una natura trasversale. Cioè seduce sia i giovanissimi, assuefatti all’aforisma, alla riduzione delle grandezze in 140 caratteri, sia i quarantenni, perché Volo insiste su un messaggio subliminale e dirompente: la purezza dei sogni personali opposta alla torbidezza di una società che di mestiere i sogni li uccide. E i quarantenni, appunto, quei sogni li sentono ancora vivissimi e immacolati: ce li ricordiamo uno a uno, quasi stampigliati sui muri accanto ai poster di Madonna e di Simon Le Bon. Oppure tracciati con il pennarello sugli zaini, sui bagni delle scuole, incisi sotto al banco. Noi, quelle aspirazioni, che nel ricordo si fondono con qualche citazione tratta dai Doors (non a caso Jim Morrison ancora oggi è una miniera per Twitter) o dai Pink Floyd, potremmo chiamarle per nome.
Così, in questo nuovo libro, A cosa servono i desideri, sin dal titolo il quarant(aquattr)enne Volo, ripercorrendo la sua vita e la sua carriera, elenca la costellazione di ambizioni nella quale si è allineata, crescendo, un’intera generazione: la provincia e l’aspirazione, che fa molto anni Ottanta-Novanta, di conquistare le grandi città; la paura di lasciare la famiglia e i compagni (all’epoca non c’erano Twitter e compagnia a farti sentire meno solo nelle partenze); il timore dell’insuccesso e del ridicolo, paure che oggi vengono stemperate da un continuo confronto mediatico con gli altri; il rapporto molto più stretto con gli amici, perché non mediato dai messaggi e dalle chat.
C’era la famiglia in quei desideri? Poca. Attraverso le canzoni, i film e la televisione, ci arrivava un mondo da conquistare con uno slancio individuale, come quello di Martin Eden: la metropoli e le sue seduzioni, il richiamo della carriera, anche per le donne, le scelte sessuali da vivere con allegria, senza appesantimenti ideologici – l’incarnazione perfetta di questo è stato David Bowie, mimetico e ironico.
Ovviamente, qui, Volo è molto voliano. «Dentro di me c’erano una forza e un impeto che andavano assecondati, altrimenti... sarebbero andati persi nel mondo delle cose che non accadono». «Ho capito che non c’era niente da aggiungere, era già tutto dentro di me» e così via, intercalando questi incisi a numerose citazioni altissime, dal «solito» Gibran a Pascal e financo a Michelangelo (per quella faccenda dell’opera già contenuta nel marmo e che si deve solo tirare fuori). Si può anche sorridere, ma non bisognerebbe dimenticare che questo invisibile ma reiterato richiamo alla «purezza» individuale, questa innocenza dei sogni che non si arrendono a un «sistema» oscuro che complotta per spegnerli, è una delle chiavi più sicure per capire il mondo in cui viviamo. Dai tempi di Forrest Gump, film del 1994 e ancora oggi ben presente nelle nostre vite.
E viene da chiedersi quali sono i desideri attuali di Fabio Volo. Un uomo di indubbio successo: libri da cinque milioni di copie e passa solo in Italia, una compagna e due figli, trasmissioni molto seguite. Forse per capire quale «sfizio» si è concesso conviene uscire dal libro e guardare una puntata della sua fiction Untraditional, serie in nove puntate prodotta da Backery Production sul Nove. Qui Volo fa un’autofiction: interpreta se stesso nei panni di un regista che vorrebbe girare una serie, un uomo puro (ancora!) che si scontra con cinismi, manager senza scrupoli. Ma attenzione all’autoironia voliana, a un certo punto l’amico agente gli dice: «Dai Fabio, scrivi sempre le solite cavolate: che siamo tutti persone speciali, che dobbiamo conoscere noi stessi per essere felici. Certo che quando ti parte il momento Osho diventi due c*** così!».
Ecco. A quarant’anni uno sogna anche (soprattutto?) questo: poter finalmente, da qualche parte, ridere di se stesso. Specie se ci si permette di accostare Pascal e Serena da Parma. Con ironia, anche l’incipit di un romanzo strepitoso come Seminario sulla gioventù di Aldo Busi può aprire e chiudere una riflessione sui sogni di Volo: «Che resta di tutto il dolore che abbiamo creduto di soffrire da giovani? Niente, neppure una reminiscenza. Il peggio, una volta sperimentato si riduce col tempo a un risolino di stupore...».
rscorranese@corriere.it© RIPRODUZIONE RISERVATA
Per fortuna, lo dico sempre, i sogni non si avverano mai. Neppure quelli dei nostri diciotto anni: perché così possiamo continuare a sognare da adolescenti. Una bella fortuna, soprattutto per un artista. Quando ho finito la scuola d’arte a Benevento, non ho pensato a quello che volevo fare: perché già sapevo, in qualche angolo della mia mente, che volevo diventare un artista. Ma, a quell’epoca, dovevo prima di tutto pensare a mantenermi, dovevo lavorare per vivere. Forse anche per questo i miei sogni, invece di essere in qualche modo lontanissimi dalla realtà quotidiana come accadeva ai miei coetanei, erano già allora molto concreti: non sognavo la gloria, la celebrità, il successo dell’artista famoso; volevo i colori, le tele, le matite, i pennelli e tutto quello che mi poteva servire per fare l’artista. Anche un trapano Black & Decker per sagomare il legno, un attrezzo assai poco poetico e molto concreto, ma che mi permetteva di fare l’artista a modo mio. Dice la leggenda che gli artisti nascono sotto una stella molto particolare che li fa vivere lontano dalla realtà del mondo: per me, lo ammetto, non è stato così, nemmeno quando ero giovane.
***
Umberto Guidoni per la Lettura
Frequentavo la penultima classe del Liceo classico «Gaio Lucilio» di Roma, studiavo latino e greco ma sognavo le stelle. Le storie dei fumetti e dei romanzi di fantascienza, che mi avevano appassionato in quegli anni, stavano diventando realtà e le imprese degli astronauti erano sulle prime pagine dei giornali. Una decina di uomini aveva camminato sulla Luna e l’umanità sembrava pronta a lasciare il pianeta per spiccare il balzo verso altri mondi. Come milioni di miei coetanei, immaginavo il mio futuro nello spazio, in una base marziana o in un remoto avamposto su qualche luna di Giove o di Saturno. Negli anni successivi le missioni lunari si interruppero bruscamente e Marte divenne sempre più lontano ma la passione per le stelle non mi abbandonò; divenni un astrofisico e, grazie a potenti telescopi, intrapresi il mio viaggio virtuale alla scoperta dell’universo. Avevo rinunciato all’idea di diventare astronauta e non avrei mai pensato che vent’anni dopo, nell’anno in cui Kubrick aveva immaginato la sua Odissea, mi sarei trovato nello spazio a bordo della Stazione spaziale internazionale.
***
Teresa Ciabatti
Volevo fare l’ereditiera mi sono iscritta a legge
Villa con piscina, chalet a Cortina, pelliccia – ermellino, grazie – chihuahua nella borsa, e scarpe, e gioielli. A diciott’anni voglio fare l’ereditiera. Mettere al mondo figli, abbandonarli alle tate, e ritrovarsi tutti a bordo piscina, bambini, andatevi a tuffare più in là che qui schizzate mamma. Se non fosse che mia madre mi costringe a fare l’università, giurisprudenza. La folla del primo giorno mi porta a riflettere: come mi distinguerò in mezzo a milioni di persone? Cambio: lettere. Pochi minuti e capisco che non eccellerò mai, addio professor Asor Rosa, io cerco scorciatoie. A ventisei anni scrivo il primo romanzo, non per amor di letteratura, ma per parlare di me. Corro a prendere il giornale. Buongiorno ragazzi del bar; buongiorno netturbini, bambini, senzatetto; buongiorno a te edicolante: il «Corriere della Sera», grazie, oggi si parla di me. Sfoglio, sfoglio. Cultura, titolo: «Teresa Ciabatti, il romanzo più brutto dell’anno». È allora che alzo lo sguardo al cielo, che poi è mia madre che contempla il mio fallimento, meglio se facevi giurisprudenza, è allora che prometto: ora vi faccio vedere io.
***
Edoardo Boncinelli per La Lettura
I miei sogni si sono sempre tutti realizzati, fuori che quello di fare soldi, che però non era un mio sogno. E si sono realizzati perché non erano sogni. A 18 anni ne avevo due: sposarmi e fare lo scienziato, due cose un po’ legate fra di loro, perché leggevo che gli scienziati si sposavano presto. Mettere su famiglia era un mio pallino fisso; dicevo che un uomo non è un uomo se non ha una moglie e dei figli, ma non mi sentivo tanto sicuro delle mie forze, e ne ho dubitato fino all’ultimo. Tuttora mi congratulo con me stesso: ho trovato qualcuno che mi ha preso in considerazione. Dicevo anche che dovevo studiare per consegnare alla mia futura sposa un uomo ricco interiormente e valido. Di poter essere un buon padre, invece, non ho mai dubitato. Volevo poi essere uno scienziato, un uomo che scopre qualcosa di importante, nell’universo o dentro l’atomo. In realtà ho fatto il biologo, un’eventualità alla quale non ho mai pensato prima dei 27 anni. Ma l’ardore era lo stesso: rispondere a quesiti che mi incuriosiscono, ieri come oggi. Rubare all’ignoto e all’ineffabile qualche parola chiave per descrivere il mondo – il mondo che mi include e mi esclude –— giocandoci.
***
Vincenzo Nibali per La Lettura
Il mio sogno? Sì, è diventato realtà. Ma non è stato facile, tutt’altro. Da quando ho iniziato ad andare in bicicletta per le strade di Messina ho sempre sognato di diventare un corridore professionista; uno di quelli che vedevo in televisione correre il Giro d’Italia. E vincere. Sognavo di vincere, di lasciare la Sicilia, di girare il mondo. Per riuscirci, a sedici anni, ho dovuto lasciare la mia famiglia, la casa, gli amici per trasferirmi a Mastromarco, un piccolo borgo in provincia di Pistoia. All’inizio non è stato semplice, avevo sempre una grande nostalgia di casa. Poi sono arrivati i primi successi, il passaggio al professionismo e poi, via via, molte altre soddisfazioni. Sono state il frutto di tanto duro lavoro, di sacrifici, di mesi lontano dagli affetti più cari. Quella del ciclista professionista non è una vita «normale», ma n’è valsa la pena. Il sogno si è concretizzato, ma non sarebbe accaduto senza impegno, dedizione e determinazione. Ho sempre saputo che non avrei ottenuto tutto e subito dalla mia vita. Ma sognare in grande mi ha aiutato a ottenerlo.
***
Max Pezzali per la Lettura
Il traguardo dei 18 anni arrivò per me il 14 novembre del 1985: pochi mesi prima c’era stato a San Siro Bruce Springsteen, che raccontava un’America di provincia che guardava alla metropoli come a una chimera. Born in the Usa, cantava il Boss, e born in the Usa avrei voluto essere io, lontano da nebbia e zanzare, negli spazi sconfinati di una highway nel deserto. In quegli anni era difficile sognare l’America: i palestinesi sulla nave Achille Lauro, l’attentato a Fiumicino, Gheddafi in conflitto con Reagan. Alla visita dei tre giorni eravamo terrorizzati di essere mandati a fare il servizio di leva in un’isola bersagliata dai missili libici. Nel 1987 conobbi un dj newyorchese capitato chissà come a Pavia, e grazie a lui l’estate successiva in America ci andai davvero: era ancora più grandiosa e piena di vita di quanto l’avessi immaginata. Ci sono stato spesso da allora, e l’ho vista cambiare: le grandi catene hanno soppiantato le piccole attività, l’industria pesante è stata schiacciata dalla globalizzazione, l’ultima frontiera del West si è spostata nella Silicon Valley, le Torri Gemelle sono state distrutte. E oggi c’è Trump. La mia America non c’è più, o forse non c’è mai stata. Ma mi piace continuare a immaginarla.
***
Giulio Giorello per La Lettura
Forse era perché, nato a Milano al finire della guerra, avevo visto rinascere la città dalle rovine delle bombe, con fatica ma con entusiasmo. O forse era colpa dei primi giochi che i miei genitori mi avevano regalato: scatole di costruzioni in legno con cui producevo curiose mescolanze di edifici assiri, greci e moderni; e poi confezioni sempre più sofisticate di «Meccano» per far nascere macchinari assai complicati (e forse inutili) che poi dovevo smontare, vite per vite, perché occupavano troppo spazio casalingo. Insomma, volevo diventare una via di mezzo tra l’architetto e l’ingegnere. Qualche notte sognavo di riprogettare perfino un’intera città, con grattacieli che bucavano le nubi e giardini ricchi di fiori e piante affascinanti. Al mattino mi risvegliavo troppo spesso con un senso di delusione: c’era sempre un qualche motivo per cui il progetto non aveva ben funzionato. Forse, prima di cambiare il mondo, si trattava di capirlo! La lettura del testo di un irregolare ebreo olandese, l’ Etica di Baruch Spinoza, finì col farmi preferire l’architettura delle idee a quella delle case. Così si spense tranquillamente il mio intenso «furore» architettonico e cominciò un’altra storia.
***
Mimmo Paladino per la Lettura
Per fortuna, lo dico sempre, i sogni non si avverano mai. Neppure quelli dei nostri diciotto anni: perché così possiamo continuare a sognare da adolescenti. Una bella fortuna, soprattutto per un artista. Quando ho finito la scuola d’arte a Benevento, non ho pensato a quello che volevo fare: perché già sapevo, in qualche angolo della mia mente, che volevo diventare un artista. Ma, a quell’epoca, dovevo prima di tutto pensare a mantenermi, dovevo lavorare per vivere. Forse anche per questo i miei sogni, invece di essere in qualche modo lontanissimi dalla realtà quotidiana come accadeva ai miei coetanei, erano già allora molto concreti: non sognavo la gloria, la celebrità, il successo dell’artista famoso; volevo i colori, le tele, le matite, i pennelli e tutto quello che mi poteva servire per fare l’artista. Anche un trapano Black & Decker per sagomare il legno, un attrezzo assai poco poetico e molto concreto, ma che mi permetteva di fare l’artista a modo mio. Dice la leggenda che gli artisti nascono sotto una stella molto particolare che li fa vivere lontano dalla realtà del mondo: per me, lo ammetto, non è stato così, nemmeno quando ero giovane.
***
Alessia Gazzola per La Lettura
Un amico di famiglia conserva un bigliettino da visita ritagliato da un quaderno delle elementari: Alessia Gazzola, Scrittrice. Avevo otto anni e a diciotto il desiderio di scrivere era sempre più forte. Ma come farne un mestiere? Tutti mi dissuadevano: «Puoi coltivare la scrittura in parallelo». E così, Medicina fu. Ma al secondo anno, dopo l’esame di Fisiologia Umana, capii che avevo sbagliato strada. Mi trascinai fino all’ultimo anno senza riuscire a individuare, nell’immenso mare pur offerto da una disciplina tanto vasta, qualcosa che mi coinvolgesse. Nel frattempo continuavo a scrivere in segreto. Poi arrivò Medicina Legale: allora esisteva una strada anche per me! Che però si rivelò difficile da subito. Così, per alleviare il senso di inadeguatezza, nacque Alice Allevi, una giovane specializzanda cui nessuno dava credito, un po’ cialtrona ma con un intuito fenomenale. Non so dire se senza la Medicina alla fine sarei diventata una scrittrice. È uno strano paradosso. Senza la Medicina, Alice non sarebbe mai nata e oggi quel bigliettino da visita, anziché intenerirmi, mi avrebbe ricordato un rimpianto.