La Lettura, 27 novembre 2016
«Le mie emoji non sono arte». Parla Shigetaka Kurita: «Le ho inventate perché erano utili per gli sms ma io resto un creatore di servizi. Sono utensili con qualità estetica, e così entrano al Moma»
Forse le emoji sono (anche) opere d’arte. Eclettiche e iperpop. Da usare compulsivamente sui nostri smartphone. E ora da vedere in uno dei più prestigiosi templi dell’arte, il Moma di New York, da anni impegnato a ridefinire la sua identità, aprendosi ad acquisizioni piuttosto eccentriche: dai videogame alla @. Alle emoji, appunto. Ideogrammi che rappresentano minime icone eterogenee: faccine gialle con diverse smorfie; padri, madri, figli, poliziotti, detective, ballerine di flamenco, conigliette; e oggetti desueti come dischetti da tre pollici, cineprese, telefoni fissi, buste da lettera, cassette postali. Lettere di un alfabeto di immagini in progress. Tracce di un repertorio del divertissement, che si arricchisce quotidianamente. Un ludico liber figurarum della postmodernità.
Oramai siamo vittime di un’emoticon-mania: emoji è stata catalogata dal Global Language Monitor come parola più trendy dell’anno e ed è entrata nell’ Oxford English Dictionary. Siamo dinanzi a un pervasivo fenomeno mediatico, dietro cui si nasconde una ricca, articolata e ancora inesplorata genealogia artistico-filosofica, della quale «la Lettura» discute con l’inventore di questo slang contemporaneo: il giapponese Shigetaka Kurita. Che, pur celebrato adesso dal Moma, non si considera un artista: «Sono solo un creatore di servizi internet».
Un creativo, dunque. Che sembra operare come il sovrano di un coloratissimo impero dei segni, la cui nascita risale a tanti anni fa. «Nel 1999 in Giappone nacque i modo, un servizio internet che offriva servizi email e contenuti per i cellulari. Ero membro di un team di designer. Sviluppammo le emoji per reagire al numero ridotto di caratteri che si potevano inviare. Per facilitare la comunicazione dei sentimenti dei mittenti, rendendola più diretta. E anche per annunciare le previsioni del tempo. A quell’epoca, però, gli schermi dei cellulari erano piccoli e in bianco e nero».
Decisive anche alcune motivazioni autobiografiche. Kurita: «Ho progettato le emoji muovendo dalla mia esperienza personale. Quando utilizzavo gli sms, per me era difficile dire il senso profondo dei messaggi inviati ai miei interlocutori. Spesso si verificavano fraintendimenti. Così ho disegnato qualcosa che andava incontro a un mio bisogno». Dietro queste ragioni pratiche, la spericolata avventura semiotica di Kurita cela echi e rinvii colti. Innanzitutto, esplicite citazioni storico-artistiche. In particolare, evidenti i recuperi di suggestioni da quella che è stata definita la linea umanistica dell’arte occidentale, animata da pittori attenti a studiare i moti dell’animo partendo dai tratti del viso. Si pensi al Munch dell’ Urlo, dove si mette in scena un uomo disperato, le cui grida si trasmettono dai territori dell’interiorità a tutto il contesto paesaggistico, fino a renderlo liquido. «Guardo sempre alla storia dell’arte. Ad esempio, c’è un’emoji senz’altro ispirata all’ Urlo».
In maniera forse involontaria le iconcine di Kurita sembrano rilanciare – ovviamente su registri estetico-formali «leggeri» – la riflessione sui nessi tra arte e stati d’animo condotta da autori come Leonardo, Lotto, Rembrandt, Velázquez, Géricault, van Gogh, Boccioni, Bacon e, appunto, Munch. Per offrirsi come trascrizioni visive di momenti emozionali più o meno significativi. Ecco, le emoji sono innanzitutto questo: semplici e agili dispositivi che vogliono dare un volto alle nostre emozioni. Le quali, ha ricordato Edoardo Boncinelli, non vanno interpretate come elementi accidentali ed effimeri né come insondabili capricci e neanche come «condizioni ineffabili e irriproducibili». Sono un indispensabile bisogno vitale. Simili a una bussola, ci consentono di orientarci nella nostra quotidianità. Legate a situazioni da evitare o da perseguire, a vicende e a ricordi, le emozioni nascono dalle misteriose combinazioni tra mente e corpo. Kurita, ancora: «Le emoji si usano per decorare i messaggi; per trasferire le idee in maniera più franca. Ma soprattutto per esprimere gli stati d’animo».
In filigrana, segrete assonanze tra queste micro-opere e Inside Out. Un sofisticato film Disney, dove si racconta di una bambina che, costretta a spostarsi da un piccolo centro del Minnesota a San Francisco, non si adatta alla grande città e subisce un trauma: il film svela i retroscena dei suoi comportamenti, mostrando il Quartier Generale della sua mente, che è abitato da 5 emozioni impersonate da personaggi con precise caratteristiche fisiche: Gioia, Tristezza, Rabbia, Paura e Disgusto. Kurita: «Ho visto Inside Out : l’ho trovato divertente e bello. Quel film e le emoji provano ad afferrare alcuni sentimenti fondamentali dell’uomo. Influenzato da Inside Out, ho creato i kao-moji : faccine che indicano gioia, rabbia, tristezza, divertimento». In sintonia con gli autori della Disney, Kurita ordina sequenze di emergenze affettive, ricorrendo a soluzioni stilistiche debitrici di motivi cari alle culture pop. «Con quella matrice, soprattutto nelle sue declinazioni giapponesi, ho un forte rapporto. In particolare, alcune emoji ripropongono espressioni che si ritrovano nei manga e negli anime».
Inoltre, proprio come il film della Disney, anche gli emoticon, dietro una maschera da cartoon, custodiscono una dimensione sottilmente filosofica. Comparse di una sintassi flessibile e non specifica, derivazioni del body language del web, incarnano quello che è stato definito il doublespeak, il doublethink : il bisogno di dire tutto senza dire nulla. Soggettivi, ambigui e ricchi di sfumature, sono esito dell’età dell’incertezza.
Ma le emoji, come ha sottolineato Maurizio Ferraris, affermano soprattutto l’obiettivo di sottrarsi alle «forche caudine del linguaggio», arrivando addirittura a mettere in discussione Hegel, il quale aveva elogiato la centralità della scrittura alfabetica e imputato a ideogrammi e geroglifici d’essere cifre dello «scrivere muto» e del «leggere sordo». In polemica con il logocentrismo imperante in Occidente e in consonanza con quel bisogno di leggerezza, superficialità e immediatezza che caratterizza la contemporaneità, Kurita si affida ad alcune figure sintetiche per trasmettere e rendere intuitivi i nostri pensieri. Si propone di dar voce a quella necessità originaria propria di ciascun individuo già colta da Aristotele: l’uomo è portato a pensare attraverso le immagini.
Del resto – si sa – abbiamo una naturale inclinazione nel provare a visualizzare il «concettuale» in forma sensibile. È un nostro istinto: cerchiamo sempre di rappresentare visivamente le nostre idee. Tendiamo a consegnarci a una sorta di schematismo kantiano: a una drammaturgia semplificata di simboli e di pittogrammi, che hanno il valore di indispensabili supporti per una conoscenza autentica. La nostra utopia: in una società multilinguistica e multiculturale, farci capire da tutti. Senza il filtro della parola. Ovunque. Non senza understatement, Kurita spiega che «non ho familiarità con la filosofia. Le emoji sono utilizzate in unicode. Come “caratteri” che integrano e completano le parole».
Questi emblemi per lo più giocosi ora entrano nel Moma (per iniziativa di Paola Antonelli, Senior Curator per l’architettura e il design), confermando la tendenza pop che sta contagiando alcuni tra i maggiori musei del mondo. Un modo per nobilitare piccole icone usate da noi ogni giorno (elaborate tecnologicamente)? Una maniera per consacrare opere «democratiche», alla portata di tutti? Non smentendo il suo atteggiamento low profile, Kurita conclude: «Sono estremamente onorato e felice di poter lasciare il mio nome nella storia dell’arte. Il museo contemporaneo è un posto in cui si collezionano anche prodotti che influenzano la vita dell’uomo. Le emoji sono state acquisite dal Moma perché, con la forza del design, hanno cambiato la comunicazione interpersonale. Io credo che siano essenzialmente commodity come cutlery : utensili dotati di una certa qualità estetica, che ha nno permesso a tutti noi di esprimerci come finora non avevamo mai fatto. Ma non sono opere d’arte».