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 2016  novembre 25 Venerdì calendario

In morte di Sermonti

Paolo Di Stefano per il Corriere della Sera 
«Lavoro per qualsiasi contemporaneo abbia conservato come me una stella filante, un coriandolo di “ragazzità”, che insomma non sia disperatamente convinto di aver capito già tutto della vita…». Così si è congedato, una settimana fa su Facebook, il «ragazzo» ottantasettenne Vittorio Sermonti. Lo scrittore, il poeta, il drammaturgo, l’attore, il regista, il commentatore, l’interprete, il traduttore, il saggista, il giornalista, il lettore onnivoro che è riuscito a «morire da vivo», come desiderava.
È stato davvero un intellettuale creativo e del tutto sui generis, Sermonti, con la sua energia instancabile, la sua ironia, il suo aplomb anglosassone e la sua passione viscerale non solo per la letteratura ma anche per le donne ( ipse dixit ) e per il calcio (da juventino indomito ha dedicato all’epopea del football un libro intitolato Dov’è la vittoria, 1983).
Ha vissuto al tempo stesso dentro e fuori la cultura del dopoguerra italiano, avendo avuto amici come Pasolini, Bassani, Parise, Garboli, Gassman, Carmelo Bene, avendo frequentato il giro di Roberto Longhi e della rivista «Paragone» dopo essersi laureato con Sapegno e Macchia, avendo collaborato con la televisione e la radio (ha diretto una ventina di «interviste impossibili»), avendo viaggiato in lungo e in largo dentro il teatro; ma avendo anche abitato nella Germania della guerra fredda e nella Praga della Primavera.
Dal soggiorno nella città di Kafka, Sermonti trasse il libro che, per sua ammissione, amava di più ritenendolo anche il migliore: Il tempo tra cane e lupo (1980), «una raffica di ottantanove racconti brevi o brevissimi che svolazzano sulla città di Praga, più o meno al tempo del famoso “socialismo dal volto umano” e della conseguente invasione dei carri armati del Patto di Varsavia (agosto 1968)». Quel libro gli fece guadagnare l’ammirazione di lettori d’eccezione come Manganelli, Giudici, Raboni, anche se, come spesso accade, la fortuna editoriale non è stata proporzionale alla sua bellezza.
E fu grazie ai racconti-galeotti su Praga che, sempre per sua stessa ammissione, Sermonti conobbe «il poeta-donna» Ludovica Ripa di Meana, con cui avrebbe poi convissuto per oltre trent’anni, dopo un primo matrimonio con Samaritana Rattazzi (figlia di Susanna Agnelli). 
Vittorio incontrò la letteratura sin dall’infanzia, in una casa (padre avvocato pisano, madre palermitana, sei fratelli) frequentata da Luigi Pirandello, oltre che da pezzi grossi dell’economia e della giurisprudenza, come Alberto Beneduce, Enrico Cuccia, Vittorio Emanuele Orlando, che fu suo padrino. Ma incontrò ben presto anche il teatro, e mettendo insieme le due passioni tradusse Molière, Racine, Schiller e anche il capolavoro di Lessing, Nathan il Saggio, con la consapevolezza che «tradurre per il teatro non è solo tradurre da lingua a lingua: è tradurre da voce a voce». E chissà che la stessa cosa non sia valsa anche per le versioni «spericolate» dell’ Eneide (2007) e delle Metamorfosi di Ovidio (2009).
La voce è un elemento chiave della personalità intellettuale e creativa di Sermonti: ciò che probabilmente lo avvicina a Dante, come finissimo commentatore, poi all’idea di leggere in pubblico la Commedia. Leggendo il poema in pubblico, sin dagli anni Novanta, Sermonti ha anticipato la voga dei festival precedendo anche il Benigni dantesco televisivo e nazionalpopolare. Furono il filologo principe Gianfranco Contini (per le prime due cantiche) e poi Cesare Segre (per la terza) a garantire la supervisione critica del suo commento, insieme rigoroso e affabile, che avrebbe avuto un notevole successo nelle scuole oltre che nella lettura integrale radiofonica, in seguito portata nella basilica di San Francesco a Ravenna, ai Mercati di Traiano e al Pantheon di Roma, dal 2003 al 2005 al Cenacolo fiorentino di Santa Croce e a Santa Maria delle Grazie di Milano, varcando poi i confini italiani. Affluenze record di decine di migliaia di persone attratte dalla sua voce calda e confidenziale, mai banale, che sembrava emergere dalle profondità di una immersione totale nei vari strati del testo poetico riuscendo a sciogliere immagini e concetti in narrazione. 
Mise a frutto ovunque il suo esercizio della recitazione, ma anche l’esperienza di docente di tecnica del verso teatrale all’Accademia d’Arte drammatica. E la vocazione musical-vocale, che gli fece maturare il sogno (fallito) di diventare pianista, musicista, compositore, non era estranea neppure allo scrittore di quattro romanzi, da La bambina Europa del 1954 all’autobiografia Se avessero, uscita l’anno scorso, «opera ultima», come recita il sottotitolo.
Colto, raffinato frequentatore della grande letteratura europea, appassionato della tessitura contaminata di Gadda, sin dalle prime prove Sermonti viene classificato tra gli scrittori espressionisti, giocoliere di linguaggi e di esperimenti tecnici anche nelle poesie di Ho bevuto e visto il ragno (1999). Se avessero prende avvio da un’ipotesi collocata nel maggio 1945: se tre partigiani alla ricerca di un ufficiale fascista, entrati con i mitra nella sua casa milanese, avessero sparato al fratello… È una ricerca, non lineare, di sé dentro la propria memoria stratificata e capricciosa, una narrazione erratica svolta in seconda persona (un «tu» non identificato) che continuamente sposta il fuoco dell’attenzione verso luoghi, tempi e personaggi diversi: tra questi il padre Alfonso, fascista, una madre considerata «cattiva», un fratello missino, Rutilio, che voleva far rivivere il mito di Mussolini e il Reich. E non manca ovviamente lo stesso Vittorio che da giovane indossò la camicia nera e si iscrisse al Pci, senza più rinnovare l’adesione, proprio nel 1956, anno dei fatti d’Ungheria.
Nasce da un’idea «vocale» (radiofonica) anche la sua bellissima raccolta di scorribande letterarie, Il vizio di leggere, bilancio di un «bibliodipendente mai pentito» che ci accompagna con discrezione e con stile da Saffo a Faulkner, da Catullo a McEwan, con lo scopo dichiarato di «sobillare il prossimo alla lettura». Poi venne Il vizio di scrivere, un’autoantologia che si conclude con pensieri, frasi e storielle intitolate La morte non esiste.
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Paolo Mauri per la Repubblica 
Si può dire che Vittorio Sermonti, scomparso ieri a 87 anni, abbia rivissuto la propria vita molte volte grazie alla scrittura. Una scrittura che faceva da specchio moltiplicatore alle mille vicende in cui lui, Vittorio, si era trovato coinvolto, trovando sempre nello scrivere nuova linfa per vivere e nuova forza per riflettere. Quest’anno aveva addirittura provato l’emozione di arrivare terzo al Premio Strega con “Se avessero” (Garzanti). Ma che cos’è questo libro? Proprio la storia di una parte della sua vita: l’ipotesi riguarda un’azione che non ci fu: se i tre giovani partigiani, entrati nel villino che si trovava al numero 41 di via Domenichino a Milano, in zona Fiera e dove abitava la famiglia Sermonti fuggita da Roma, avessero sparato a suo fratello maggiore… Non gli spararono, per fortuna, ma dell’irruzione dei tre partigiani Vittorio, Sallora ragazzino, fu attento testimone.
Se avessero è dunque una storia sua e della sua famiglia, ma anche una storia nostra, perché perfettamente calata nella vicenda di un Paese allora ridotto alla fame tra le macerie della guerra. Il padre di Vittorio era un avvocato pisano. «Nella prima estate di guerra» scrive Sermonti nell’Avvertenza che precede il suo commento alla Commedia, «mio padre lesse e spiegò l’Inferno di Dante ai gemelli, che avevano quattro anni più di me e si accingevano alla prima liceo. Vanagloria o rassegnazione (non ricordo), mi trovai associato all’ascolto». Anche se quella prima lettura aveva lasciato diverse incomprensioni e tracce un po’ vaghe, Dante era entrato nella sua vita e, mezzo secolo dopo, c’era ancora. Abbastanza da fargli intraprendere la fatica di un commento, canto dopo canto, per una lettura pubblica e poi radiofonica che avrebbe conosciuto, diventata libro, anche un buon successo nelle scuole. E per questo che ieri l’ex presidente della Repubblica Giorgio Napolitano ha parlato di «grave perdita per la cultura italiana», mentre il Comune di Firenze ha deciso di intitolare una via allo scrittore.
Sermonti era un dantista? Se lo era o pensava di esserlo, possiamo dire che si muoveva con molta prudenza, facendo rivedere il suo lavoro da Gianfranco Contini e per l’ultima cantica da Cesare Segre, dantisti, loro sì, ufficiali e indiscussi. Nei suoi traffici con la poesia, traffici, se così posso dire, durati una vita, Sermonti aveva messo in cantiere numerosi saggi (anche su quella cosa difficile che è la metrica, però raccontata in modo da diventare comprensibile) e numerose traduzioni. Si era misurato con l’Eneide e con le Metamorfosi perché voleva far rivivere quellaantica poesia che tanto lo aveva incantato da giovane. Non bisogna dimenticare che tra i molti mestieri esercitati da Vittorio c’era stato anche quello di professore al liceo Tasso di Roma, negli anni Sessanta. E un po’ professore si sarebbe sempre sentito anche con i lavori danteschi, tesi com’erano ad una divulgazione il più possibile ampia. Tra gli altri impegni c’era stata ad un certo punto la radio per la quale aveva firmato ben 120 regie. In via Asiago aveva cominciato del resto a circolare giovanissimo, quando era ancora possibile imbattersi in Gadda che spesso parlava malissimo degli intellettuali che frequentavano il Terzo programma. Del resto, sempre da molto giovane, era capitato nella redazione diParagone, in zona Longhi, per così dire. E molte erano state anche le sue traduzioni per il teatro da Plauto, Molière, Racine e Sartre. In questo somigliava al suo amico e compagno di studi Cesare Garboli. Quando Garboli morì toccò proprio a Vittorio ricordarlo nella chiesa di Santa Maria del Popolo a Roma, rievocando i tempi in cui preparavano insieme l’esame di latino con un numero smisurato di testi da leggere e tradurre. Erano tempi in cui c’era poco da mangiare e Garboli teneva in serbo del pane secco che poi bagnava e scaldava sul gas. Mangiavano, si può dire, pane e gas. Il testo dedicato a Garboli figura in uno degli ultimi libri di Sermonti, Il vizio di scrivere, uscito nel 2015 per Rizzoli. È un libro, mi capitò di scrivere su queste pagine, che gli assomiglia perché dà conto della sua irrequietezza e della sua versatilità. Contiene, per esempio, quattordici racconti di opere verdiane, recitati col sottofondo musicale e poi raccolti anche in un libro intitolato Sempreverdi in occasione del centenario del grande musicista. Ma ci si trovano anche poesie e poesiole, ancora una volta autobiografiche, tipo questa: «Mio padre era pisano / mia madre di Palermo/ da piccino ero sano, / da giovinetto infermo». Sembra Petrolini. Sono tratti da una raccolta intitolataHo bevuto e visto il ragno. Cento pezzi facili (1999).
Tra i libri che Sermonti maggiormente amava ce n’è uno del 1980, Il tempo fra cane e lupo: una serie di brevi racconti che hanno come sfondo la Praga del “socialismo dal volto umano” e dei carri armati sovietici. È un libro di frammenti con personaggi e storie condensati in poche righe. Dopo l’uscita della mia nota, Sermonti mi aveva scritto una email di ringraziamento in cui scherzava sul fatto che era molto contento quando si parlava bene di lui. Poi accennava al “breve futuro” che lo attendeva, ma, aggiungeva, “senza angoscia”. Della sua lunga vita, possiamo dire, non ha mai perso un minuto.

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Mattia Feltri per la Stampa 
Nemmeno la morte gli darà un confine, quella morte che non esiste, come aveva detto in una bella intervista con Antonio Gnoli. Non sarà la scomparsa, mercoledì sera a Roma, a 87 anni, a imporre su Vittorio Sermonti una sintesi, né una sentenza con le ampie motivazioni che sono le biografie, o gli elogi funebri. Sermonti non sarà incasellabile in un talento, visto che portava i titoli di romanziere, saggista, poeta, critico, insegnante all’Accademia Nazionale d’Arte Drammatica, regista televisivo e radiofonico, giornalista, specialista del rapporto soprattutto teatrale fra testo e voce, studioso e lettore della Divina Commedia senza il compiacimento dell’applauso.
Non basterà definirlo uomo del suo tempo, comunista e ex comunista, imparentato con gli Agnelli per matrimonio con Samaritana Rattazzi, figlia di Susanna, autore di un libro di pura e focosa passione sulla vittoria azzurra ai Mondiali dell’82, compilatore di un elenco dei libri più amati, con l’Almanacco del calcio ’83, in copertina Enzo Bearzot che alza la coppa, insieme con quelli di William Faulkner, Emilio Gadda, Leone Tolstoj, Ezra Pound, Catullo. Vetta dell’élite, splendido snob, nemico del birignao di Vittorio Gassman con cui pure aveva lavorato, più bibliodipendente che bibliofilo, santissimo uomo contro quelli, troppi, «che perdono il proprio tempo a scrivere romanzi, e pretendono di perdere anche quello degli altri pubblicandoli», in preda a dipendenza per Vivere e Tutto può succedere, le fiction super pop in cui ha recitato suo figlio Pietro. Ecco, come lo definisci uno così?

Nato da famiglia numerosa, ha sei fratelli, uno genetista di fama mondiale, un altro che come il padre crede nell’onore della patria e si fa combattente di Salò: è Rutilio, morto nel 2015, storico e zoologo che suscitava scandalo perché dei giovanotti alla ricerca del brivido ne ascoltavano i racconti di retorica ed eroismo. In casa giravano parenti imprevedibili, Alberto Beneduce ed Enrico Cuccia, che hanno attraversato il fascismo in modi diversi, e saranno capisaldi della democrazia, Vittorio Emanuele Orlando e Luigi Pirandello, tutti legati ai Sermonti per le più incredibili coincidenze che ci consegnano i parenti acquisti. 

Da ragazzo divide cena e dopocena con i monumenti della letteratura del Novecento, Giorgio Bassani, Pier Paolo Pasolini, Cesare Garboli, Goffredo Parise. Ed è già bello grande quando nel salotto di Gianfranco Contini – il filologo delle più celebri antologie – prova a leggere la Divina Commedia e ne trae il più autorevole incoraggiamento. Tutti noi sappiamo di Roberto Benigni, la sua capacità divulgativa, scansata da Sermonti con meraviglioso disprezzo: «Lui è un comico. Tra l’altro di quelli che lusingano il pubblico. Io prediligo quelli come Plauto, Molière, Petrolini che il pubblico lo aggrediscono. Non offrirei Dante alle masse per nessuna ragione al mondo». 
E invece l’aveva offerto, con le letture alla radio della seconda metà degli Anni Ottanta, ma senza ammiccamenti, finti stupori, capriole, semmai col rigore filologico nato non per caso a fianco di Contini. In fondo era contento che si aprissero, a Dante e a lui, gli spazi ampi e nobilissimi dei Mercati Traianei, e che a Ravenna fossero accorsi così numerosi, gli disse il priore del Duomo, come non se ne vedevano dai funerali del povero Raul Gardini. 

Ecco, questo aveva riscattato la sua solitudine – quasi solitudine, godeva di un’ammirazione ristretta ma sconfinata – di autore di interviste a Giulio Cesare, Marco Aurelio, Otto von Bismarck, di saggi su Wolfgang Amadeus Mozart e Ettore Petrolini, di membro dell’Accademia virgiliana, di traduttore di Ovidio, di juventino che si vantava di essere stato decisivo per il trasferimento di José Altafini in bianconero, in un saliscendi fra alto e basso che non aveva mai l’andamento della posa, mai l’occhiolino per un follower in più, forse perché lui il primo Dante lo aveva sentito recitato dal padre lungo passeggiate nella campagna senese, e Beneduce e Cuccia li aveva visti giocare a poker per intrattenere le anziane signore di casa. 

Finché non lo era diventato lui, anziano, e viveva a Roma nel quartiere Fleming con la seconda moglie, dove bravi cronisti che lo hanno raggiunto per gli ultimi colloqui descrivevano le montagne di libri e i dischi di vinile, e dove aveva alle pareti le foto dei figli, compresa la piccolina, morta a quattro anni e mezzo. «Un dolore e un’esperienza che condividiamo ancora», diceva senza indugiare nell’orrore irrimediabile. Condividiamo, diceva: lui e la moglie, la donna con cui ha imparato che la morte non esiste. Anche se è venuta a prenderlo, trovandolo dentro l’unico confine certo, quello del corpo malato.

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Valeria Arnaldi per il Messaggero
Un istituto rinomato per l’eccellente offerta formativa e la serietà richiesta negli studi. E, di certo, come si soleva dire, ben frequentato, sia in termini di famiglie, sia per talento e impegno dei ragazzi. È stato il liceo Torquato Tasso, in via Sicilia, poco distante da via Veneto, uno dei luoghi che hanno visto diventare grande, nel pieno senso del termine, lo scrittore e divulgatore di Dante Vittorio Sermonti, scomparso a 87 anni mercoledì sera all’ospedale Sandro Pertini. Qui, infatti, nelle ampie aule dell’Istituto, è stato studente. Qui ha coltivato e confidato ai compagni il sogno di diventare, un giorno, pianista. Qui ha manifestato i primi fastidi per la voce eccessivamente impostata, ascoltando dall’altoparlante della scuola versi recitati da Vittorio Gassman, con cui successivamente avrebbe lavorato ma che all’epoca si ostinava a non voler capire, come ha ammesso nel libro Il vizio di scrivere, per «quella doppia esse e quella enne scempia». E qui, ormai grande, è tornato, stavolta in cattedra, per insegnare italiano e latino per circa quattro anni. Tra i suoi alunni, il fratello di Walter Veltroni, Valerio. 
IL RICORDO
Oggi, nella sede del liceo, docenti e studenti ricordano Sermonti ex-alunno, non con memorie dirette ma per l’importanza del nome. Della docenza non si parla granché, eppure di quel periodo lo scrittore rammentava volti e nomi, soprattutto esperienze e lezioni, dalla necessità di riconoscere all’ascoltatore il permesso di annoiarsi fino al bisogno di dare nuova vitalità all’insegnamento della letteratura. Erano gli anni della contestazione e del tutuaismo, come definiva la rivoluzione del tu diffuso, cui si opponeva ribadendo la regola del lei. Dopo il diploma, si iscrisse alla Sapienza. Il suo incubo, lo stesso di molti in quegli anni, fu l’esame di latino con il professor Ettore Paratore, che lo bocciò per una risposta imprecisa sulle Georgiche. Sermonti continuò gli studi ma iniziò a lavorare. Nel 1963, ormai trentaquattrenne, si laureò con lode in filologia moderna. Poi iniziò le docenze. Dopo il Tasso, nel 1972 fu all’Accademia nazionale d’Arte Drammatica, che negli anni Sessanta aveva sede in via Quattro Fontane. Il sogno dello spettacolo, per cui aveva iniziato a studiare il pianoforte a sedici anni, era cambiato, non si era spento. La carriera alla Rai lo portò a esplorare la scena come regista, anche di teatro. È stato l’amore, o meglio l’intuizione della seconda moglie, Ludovica Ripa di Meana, che aveva apprezzato una sua lettura, a trasformarlo nel divulgatore che ha restituito al pubblico la passione per Dante. Ed è educando molti al piacere di ascoltare la grande letteratura che Sermonti ha fatto suoi tanti luoghi della città, trasformandoli in set delle sue letture, dai Mercati di Traiano fino al Pantheon, senza dimenticare l’esedra Marco Aurelio ai Musei Capitolini. Il teatro della sua quotidianità però era lontano sia da quello dell’adolescenza che dagli scenari letterari. Per oltre trent’anni, infatti, ha vissuto con la moglie ai piani alti di una elegante palazzina a Collina Fleming, circondato da libri e vinili.