Il Messaggero, 25 novembre 2016
Scandalo addosso
PARIGI Alla fine il vestito a fiori blu della ministra francese è finito al museo. Un bell’abito estivo di cotone, stretto in vita e gonna ampia, una frivolezza anni Cinquanta. Sarà esposto in vetrina, coi suoi bei fioroni e i fischi che lo accompagnarono all’Assemblée Nationale. L’abito di Cecile Duflot è uno dei pezzi forti della mostra che si inaugurerà il primo dicembre al Musée des Arts Decoratifs di Parigi, Tenue Correcte exigée! Quand le vêtement fait scandale, storia della moda attraverso gli indumenti che hanno fatto scandalo, sconvolto le regole, rivoluzionato i codici e i generi.
LA STORIA
Il 17 luglio 2012 l’allora ministra per la Casa di Hollande scende i gradini dell’Assemblée Nationale per rispondere a un’interrogazione sul progetto Grand Paris, l’area metropolitana di Parigi. Vorrebbe parlare di trasporti e studi di fattibilità, ma le parole sono coperte dai fischi e ululati dei deputati (maschi) dell’opposizione. Fischi di apprezzamento come ai vecchi tempi, alle curve della ministra, al vestito sexy (perché poi? non è né scollato, né trasparente, né succinto): il presidente dell’Assemblée Nationale sarà costretto a richiamare i giovanotti all’ordine. L’episodio passerà alla storia parlamentare francese come uno dei più sessisti. I deputati dell’opposizione tentarono purtroppo di giustificarsi: «Non era per insultare Cécile Duflot, era un segno di ammirazione si azzardò a spiegare Patrick Balkany, deputato conservatore Eravamo tutti sorpresi di vederla con un vestito. Ha chiaramente cambiato look. Se non vuole che ci si interessi al suo look non lo cambi. Tanto più che magari aveva messo quel vestito perché non voleva che stessimo a sentire quello che diceva».
LE SEZIONI
Insomma: tutta colpa del vestito. L’abito della ministra è finito nella prima sezione della mostra parigina, che ripercorre secoli di trasgressioni vestimentarie: dai pantaloni a mongolfiera per uomo del Seicento, a Marie Antoinette ritratta in sottoveste trasparente da Elisabeth Vigée-Lebrun, fino ad arrivare alle rivoluzioni dell’era moderna: i jeans (accolti come un oltraggio, un’aberrazione), poi i baggy, troppo larghi, e gli slim, troppo stretti!, la minigonna di Mary Quant, (troppo corta!) Marlene Dietrich vestita da uomo quarant’anni prima dello smocking di Yves Saint Laurent (che riuscirà ad indignare nonostante l’assoluta e eterna perfezione) e poi le gonne per l’uomo (tabù che continua a resistere nonostante i kilt di Jean-Paul Gaultier).
I CLICHÉ
D’altra parte il destino del vestito fu segnato da subito: senza il peccato originale, Adamo ed Eva sarebbero rimasti nudi. Grazie a 400 pezzi, tra abiti, accessori, ritratti, caricature, fotografie, la mostra di Parigi ci ricorda quante rivoluzioni (non sempre piccole o effimere) hanno visto l’abito protagonista e quanto difficile sia il vestirsi bene. Ci ricorda quei capi di abbigliamento che hanno fatto un po’ la storia, scardinato cliché, luoghi comuni, convenzioni.
C’è la madre di tutte le t-shirt bianche, quella sudata di Marlon Brando in Un tram chiamato desiderio, l’abito da sera nero, troppo grande per il suo decolleté, indossato dalla principessa Diana per la sua prima uscita in pubblico al fianco di Carlo (raccontava già tutto di lei), c’è il completo con giacca con collo alla coreana di Thierry Mugler addosso al ministro della cultura Jack Lang nel 1985 all’Assemblée Nationale: fu la prima volta che un uomo senza cravatta entrò nell’emiciclo, e anche allora ci furono fischi e ululati. E poi c’è Kurt Cobain, si fece carico di portarci anche il grunge, di vestirsi come non si doveva, sgualcito, largo, sporco, lacero.
Anche gli sportivi fecero qualche rivoluzione: per tutti, un Michel Platini anni ’80 con i pantaloncini quasi all’inguine, inimmaginabili oggi. Da allora gli short dei calciatori si sono riallungati, effetto, dicono gli esperti, della moda sportiva della puritana America. La mostra si chiude sulle rivoluzioni in passerella, i défilés chocs che negli ultimi quarant’anni hanno portato la trasgressione (non solo stilistica) dentro lHaute Couture.
DIKTAT
Alexandre McQueen osò molto con la collezione autunno-inferno ’95-96 Highland Rapes: modelle in tartan, denudate, stracciate come dopo una violenza carnale, per denunciare lo stupro fatto subire alla Scozia dall’Inghilterra.
Nel 2000 toccò a John Galliano scioccare, con la collezione primavera-estate 2000 per Dior ispirata ai senza tetto, abiti extralusso da barboni. E chiude la mostra un modello da Sphynx, collezione primavera-estate 2015 di Rick Owens: l’americano ha cercato di dare una mano ad abbattere il diktat del pantalone per l’uomo, vestendo i suoi modelli con abiti asimmetrici che lasciavano, delicatamente, intravedere le parti genitali. E di nuovo: fischi e ululati.