Corriere della Sera, 25 novembre 2016
Giuseppe e Vittorio Sgarbi. «Ogni giorno vado sulla tomba della mia Rina»
Ogni mattina, che sia pioggia, vento o sole che ti spacca la testa, Giuseppe Sgarbi detto «Nino» prende i suoi 95 anni, lascia la casa in mattoni rossi nel cuore di Ro Ferrarese e attraversa il Po. Raggiunge il cimitero di Stienta solo per guardare ancora una volta il sorriso di una donna, Caterina «Rina» Cavallini, la bruna con la quale, in 65 anni di matrimonio, ha diviso la guerra, la ricostruzione, una farmacia tuttora viva, l’alluvione del Polesine, due figli, una casa.
Anzi, no. La casa è un’altra faccenda. Protetta da un muro e da una siepe (che ricorda la barriera dei Finzi Contini, storia di queste parti), ti risucchia in un vortice di madonne, cristi in croce, santi in olio su tela, migliaia di sculture che si appoggiano l’una sull’altra, ritagli di giornali, poesie affisse in cucina. Nel nome del figlio: Giuseppe e Rina, negli anni, in silenzio, hanno eretto questo monumento museale a Vittorio e a Elisabetta, hanno vissuto le loro vite di successo attraverso gli occhi altrui, ritagliando gli articoli, incorniciando foto e premi. E, soprattutto, sedimentando un ricordo che oggi sopravvive a loro stessi, almeno a Rina (mancata l’anno scorso): un museo privato o «Vittoriale», dice scherzando Vittorio, mentre accarezza la spalla di Giuseppe, uomo arguto e gentile.
Seduti nel salotto e sovrastati da una tela del Lombardi, verrebbe da pensare che oggi sono quasi alla pari. «Ormai la star è lui», dice Vittorio alludendo al successo editoriale del padre, che ha appena pubblicato con Skira Lei mi parla ancora, commovente lunga lettera alla moglie («Un amore che vive anche adesso che tu non vivi più. Per questo il dolore è così grande»), oltre ad altri due libri ugualmente apprezzati. Dopo anni vissuti nel nome del figlio, adesso Giuseppe parla nel nome del padre. «Ho cominciato a ricordare. I pensieri, le frasi e i libri sono venuti dopo. Quando una sera Vittorio ha detto, semplicemente: Papà è uno scrittore». E bisogna attraversare la Transpolesana bella e triste, accarezzare con lo sguardo il delta dove regna l’anguilla, regina migratrice, venire qui in questo Louvre della Bassa, per capire una famiglia come quella degli Sgarbi. I padri e i figli.
«Studiai Farmacia perché c’erano meno esami da fare. Ma la Rina era brava davvero, sia con le ampolle che dietro al banco», ricorda Giuseppe. Fare il farmacista in una provincia «rossa» come questa negli anni Sessanta voleva dire occupare un posto «alto» della gerarchia locale. Ma anche, al tempo stesso, farsi portavoce di cultura, di conoscenza intesa come strumento sociale, ascensore per emergere. Ancora oggi Giuseppe, se non sai che cosa è tecnicamente un mulino ad acqua, ti rimprovera bonariamente: «Bisogna studiare figliola, eh».
Vittorio ricorda: «C’era un sistema meraviglioso di rappresentanti di libri che ci facevano arrivare in casa i grandi successi dell’epoca. Piovene, Arpino, Ginzburg». Giuseppe lo guarda: «Ma tu al collegio ti facesti sospendere perché leggevi Senilità di Svevo, un libro C3, cioè Cautela livello 3 per i giovani!». «Sì, papà, ma i preti erano così. Tu e mamma però prendeste le loro difese, in una partigianeria al contrario!». L’anticonformismo di Vittorio si forma qui, in questa singolare mescolanza di autoritarismo, vocazione alla cultura, e ribellione alle arti liberali. Elisabetta, molto più giovane, era diversa: «Lei ha studiato Farmacia, con mia grande gioia – ricorda il papà – anche se sapevo che la sua carriera sarebbe stata molto più luminosa e lo ha dimostrato, specie oggi che guida La Nave di Teseo, casa editrice da lei fondata». Vittorio, invece, a 16 anni, andò dalla mamma e le disse: «Mi compri un’incisione?». L’aveva vista a Palazzo dei Diamanti: l’arte cominciava lentamente a entrare in casa, con la forza di un’alluvione, qui lo spauracchio vero da quando, nel 1951, il Po si mangiò il Polesine. Era l’inizio di tutto.
«Gran parte delle cose che stanno qui dentro le ha prese lei, dietro mia richiesta», dice il critico, tratteggiando poco alla volta un piccolo romanzo familiare: per anni e anni mamma Rina si è attaccata al telefono nel salotto di Ro, negli orari più impensabili, ingaggiando battaglie memorabili alle aste per strappare quel Tiziano o quel Carracci. «Era bravissima – ricorda Giuseppe – ma non solo: se Vittorio le chiedeva una certa opera e le dava un tetto di offerta, lei faceva di testa sua e se quell’opera non le piaceva ne prendeva un’altra». Tutta suo figlio: testarda, rigorosa, schietta. «Una volta – dice Vittorio – ebbe l’intuito e la bravura di aggiudicarsi un Guercino importante, proveniente quasi in modo miracoloso dal museo di Fort Worth, quasi alla prima battuta. Quando decine di altri collezionisti lo avevano ignorato».
Così, mano a mano che i due figli si allontanavano, questa casa diventava un santuario alla loro memoria. Le migliaia di opere d’arte di Vittorio, i successi di Elisabetta. Rina aveva raccolto anche una montagna di cassette VHS con le registrazioni del Costanzo Show, la trasmissione che ha lanciato il critico più famoso d’Italia. Era quasi diventata lei stessa un’esperta d’arte. Papà «Nino» no. Lui è sempre stato un amante della lettura e della poesia. Nel salotto ricoperto da stoffe rosa di Mariano Fortuny, ogni tanto rompe il silenzio recitando: «Ognuno sta solo sul cuor della terra».
Vittorio ammette: «Lui mi ha insegnato a leggere le cose giuste, anche se controcorrente. Per esempio un autore all’epoca demonizzato, come Céline. Ah, papà, sai che ho trovato la prima edizione di Voyage au bout de la nuit ? Sì, peccato che me l’abbiano rubata subito». Chissà se Giuseppe gli ha anche insegnato la leggendaria vocazione alla seduzione. «No, quella l’ho presa da mio nonno». In effetti, come conferma papà «Nino», lui sì che era il libertino di famiglia: «Pensi che una volta è stato beccato ad accarezzare le mani di due suorine. E si chiamava Vittorio pure lui». E il cerchio si chiude. Perché nella terra dove Riccardo Bacchelli ambientò Il Mulino del Po, fu proprio nonno Vittorio il primo a portare l’energia elettrica in paese. Ma fu anche un uomo che amava il bel vivere, le donne e la bellezza in sé, senza bigottismi. Come il Vittorio di oggi, che qui dentro sembra un signore dei Medici assiso sul trono dell’arte.
E come Giuseppe, che a 95 anni ha trovato la sua voce. «Non mi aspettavo un tale successo, però, vede, questi libri nascono dalle cose di cui mi sono circondato per una vita. Le amicizie come quella per Bassani, i valzer, la pesca, il fiume e il ricordo della Rina». Che c’è ancora, eccome.