Corriere della Sera, 25 novembre 2016
Il campione dei perdenti
Non ricordava il rombo della folla ma soltanto silenzio, e il puntino bianco della pallina nel cielo dietro di lui, verso la linea di fondo. Il battitore aveva appena respinto il suo ultimo lancio nella finale del campionato di baseball della National League 1951, Brooklyn Dodgers contro New York Giants, davanti a 55mila spettatori e al resto dell’America che seguiva la diretta radio.
La vita di Ralph Branca, il perdente più famoso della storia dello sport americano morto l’altroieri a 90 anni in una casa di riposo a Rye, Stato di New York, è stata distrutta da quella pallina da baseball spedita in tribuna da Bobby Thomson come una fucilata, «lo sparo che ha fatto il giro del mondo» lo chiamano ancora oggi gli americani. Se fosse rimasta in campo, Branca sarebbe diventato un eroe. Ma volò via: «fuori campo», giro d’onore e vittoria agli avversari. Lo scrittore Don DeLillo a quel lancio ha dedicato il suo capolavoro Underworld (Einaudi), e attraverso quella pallina ha raccontato l’America del dopoguerra.
La vita di Ralph Branca finì il 3 ottobre ‘51, anche se è morto 65 anni dopo. «Perché proprio a me?» si chiedeva da ragazzino, alto e grosso tra i diciassette figli magrolini di un tranviere italiano. Perché Dio aveva dato proprio a lui quelle mani così forti?, domandava in confessionale. «Perché proprio a me?», chiese a un prete incontrato nel parcheggio dello stadio Polo Grounds, i capelli ancora bagnati dalla doccia dopo la partita. «Perché, padre?», la stessa domanda di Giobbe.
Fu condannato a ritrovare quel lancio nei suoi sogni attraverso i decenni, sussurrando «scendi, scendi, scendi» come una preghiera, sperando che la pallina finisse nel guantone del suo compagno Andy Pafko, l’esterno che cercò inutilmente di intercettarla. Ma anche nei sogni, ogni volta, la pallina volava via. «Se ammazzi qualcuno, dopo vent’anni puoi chiedere la libertà sulla parola: a me non è permesso», diceva Branca, lanciatore fortissimo tre volte All-Star del campionato, ma non lo ricorderà nessuno. Un uomo perbene che il giorno dopo la partita posò con l’uomo che l’aveva sconfitto fingendo di mettergli le mani intorno al collo.
Nel ‘47 la sua squadra aveva accolto il primo giocatore nero, Jackie Robinson, oggi eroe che ha infranto l’apartheid sportivo ma allora coperto di sputi dai tifosi avversari, dai propri, e da qualche compagno. Fu Branca, quell’omone, a sedersi accanto all’amico nero in panchina, a uscire con lui dagli spogliatoi, a abbracciarlo davanti a tutti. «Ralph fu buono con mio marito quando ancora non era di moda», ha detto ieri la vedova Robinson.
Dignitoso davanti ai guai come quella volta, l’anno dopo la finale, in cui scivolò, cadde su una bottiglietta, si ruppe la schiena e non tornò più il giocatore di prima. Per lo storico radiocronista dei Dodgers «Ralph ha portato una croce con grazia e dignità». E senza amarezza per la rivelazione del 2001: i Giants avevano barato. Nel loro stadio un telescopio nascosto rivelava alla panchina i «segni» tra lanciatore e ricevitore avversario: Thomson sapeva dove Branca avrebbe lanciato la fastball.
Se è vero che negli ultimi istanti rivediamo il passato allora Ralph Branca, chiudendo gli occhi, non può non aver sognato per l’ultima volta quel lancio. Thomson che batte, lo stadio immobile, la pallina che vola. Forse, perché potesse lasciare questa terra con un sorriso, a Branca è stato concesso, per una volta, un finale diverso: la pallina che atterra nel guantone del suo compagno Andy Pafko. Niente pioggia di carta dagli spalti, niente «vincono i Giants» che gracchia dalle radio di tutta l’America, niente «perché proprio a me?» rivolto al cielo sopra lo stadio. Soltanto un sorriso, il primo. Pafko che saluta e rilancia la pallina, «vincono i Dodgers», e il resto è silenzio.