Libero, 24 novembre 2016
Produrre in Cina non conviene. Le fabbriche tornano in Italia
Marco Palmieri, fondatore di Piquadro, apprezzata griffe della pelletteria italiana, all’inizio degli anni Duemila, venne ribattezzato Marco Polo: con grande tenacia e pazienza aveva avviato diverse fabbriche in Cina, riuscendo ad alzare il livello di qualità a livelli italiani. Ma anche Marco Polo ad un certo punto decise di far ritorno a casa. E così Piquadro, che per la verità non ha mai abbandonato la fabbrica di Gaggio Montano, ha deciso che era tornata l’ora per far shopping in Italia a partire da un marchio storico fiorentino, The Bridge. Il suo non è un caso isolato: Sandro Veronesi, l’inventore del miracolo Calzedonia che ha cavalcato con grande successo cicli produttivi in Paesi a basso costo, ha intuito fin da subito che il rilancio del marchio Falconeri richiedeva il trasloco dalla Romania ad Avio, ove è nato uno stabilimento modello.
Intanto l’Oréal ha spostato da Varsavia allo stabilimento di Settimo Torinese la produzione della linea ultradolce di Garnier e quella di Body Shop: conta, in questo caso, la vicinanza ai produttori di macchinari per il settore, in cui l’Italia è leader. Intanto tornano in Cadore le linee di produzione Safilo, già espatriate alla ricerca di vantaggi svaniti nel tempo. Così come è successo, del resto, alle fabbriche cinesi di Piquadro.
Insomma, le fabbriche rientrano nel Belpaese, abbandonato a suo tempo il più delle volte per inseguire un costo del lavoro più vantaggioso. In termini tecnici si parla di reshoring, un fenomeno in cima all’agenda di Donald Trump che mira, un po’ con agevolazioni fiscali, molto con la minaccia dei dazi, al rimpatrio delle aziende Usa dalla Cina e dal Messico per rilanciare il manufacturing a stelle e strisce. Una tendenza che ha già preso velocità anche in Italia, nonostante, a differenza di quel che è successo in Francia e nel Regno Unito, siano mancati finora incentivi pubblici (che potrebbero arrivare con il piano Industria 4.0). Anzi, l’Italia con 121 operazioni di reshoring su 730 a livello globale guida la classifica. E si tratta probabilmente di un conto per difetto perché, come, che ha notato il professor Luciano Fratocchi che guida li gruppo di ricerca Uni-Club MoRe Reshoring «spesso le imprese non hanno interesse a far sapere che sono tornate, dato che dovrebbero ammettere di aver precedentemente delocalizzato».
Ma oggi la tendenza è cambiata. Il passaporto italiano è tornato ad essere un plus, spesso decisivo sia nei confronti del mercato domestico che presso la clientela internazionale. Così come la possibilità di tagliare costi e tempi nel servizio alla clientela, un’esigenza strategica in tempi di collezioni sempre più ravvicinate nella moda. Infine, conta la miglior qualità dei prodotti garantita dalle nostre aziende rispetto a Paesi di recente industrializzazione. Non ultima, però è la disponibilità dell’offerta di manodopera o di vuoti dell’offerta dopo i “buchi” provocati dalla lunga crisi che stanno rendendo di nuovo appetibili ampie fasce della nostra offerta industriale.
È qui che, con rara fantasia e capacità imprenditoriale si è inserita, la multinazionale bolognese Ima, guidata da Alberto Vacchi. Nel 2008, ai tempi della crisi di Lehman, diversi fornitori pregarono Ima di aumentare le commesse per ovviare al crollo di altri clienti. Vacchi, che aveva appena avviato la sua delocalizzazione, decise di correre in soccorso a queste aziende, preziose collaboratrici della filiera di Ima: la multinazionale non si limitò a comprare partecipazioni azionarie, ma assieme a loro mise a punto una strategia per rimpatriare le lavorazioni emigrate. È nata così una rete che oggi fattura oltre 200 milioni, frutto di un reshoring spontaneo, garantito dal talento di un imprenditore e dalla capacità di far sistema.