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 2016  novembre 24 Giovedì calendario

I tempi più lunghi per Siena e i (veri) paletti di Francoforte

Ci sono dettagli che spiazzano, visti a pochi giorni dal referendum costituzionale: quelli che suggeriscono come una modica dose di ripresa oggi anche per l’Italia sarebbe a portata di mano, oppure lo sarebbe stata.
Il debito delle piccole e medie aziende non era mai stato così basso da prima della Grande recessione (e mai così in calo) rispetto alla loro capacità di generare profitti. Quest’ultima ha iniziato a salire in quasi tutte le principali categorie di imprese italiane, ad eccezione del settore energia, e senza contare quest’ultimo ormai la redditività non viaggia più molto sotto alla media delle imprese europee. Gli impianti produttivi sono utilizzati per almeno tre quarti della loro capacità da così tanti mesi che, in condizioni normali, sarebbe vicino il momento in cui molte aziende iniziano a investire per rinnovarla e allargarla.
Altri indizi vanno in senso diverso, per esempio il calo segnato nel 2016 nelle acquisizioni in Italia o a partire dall’Italia, o il crollo del ricorso delle imprese ai mini-bond per finanziarsi. Eppure tutti questi segnali – raccolti da Standard & Poor’s – rivelano che anche per l’Italia tempi un po’ migliori sarebbero possibili. Lo sarebbero, ovviamente, se la bassa visibilità dell’orizzonte politico non si combinasse con quella sulle banche nel rendere incerto il quadro dei prossimi mesi. In linea di principio anche l’economia italiana dovrebbe poter gestire l’incognita di uno strappo nelle urne, almeno nell’immediato, come già è successo alla Gran Bretagna dopo il referendum sul divorzio dall’Unione Europea o agli Stati Uniti con l’elezione di Donald Trump. Dovrebbe, beninteso, se solo il referendum sulla nuova costituzione non coincidesse con settimane essenziali per il futuro del sistema bancario italiano.
Alcune delle risposte saranno già disponibili il 5 dicembre. Quel giorno si conoscerà la scelta degli elettori, proprio quando il Monte dei Paschi di Siena dovrebbe lanciare l’aumento di capitale destinato a compensare le profonde perdite prodotte dalla cessione sottocosto di crediti in default del valore (teorico) di 26 miliardi di euro. Se vincesse il «Sì», appare probabile che l’aumento di capitale vada in porto sul mercato: molti detentori di obbligazioni subordinate (le più redditizie, ma più esposte al rischio) le convertirebbero in azioni per circa un miliardo di capitale, mentre altri investimenti potrebbero arrivare soprattutto da alcuni fondi sovrani in Asia e nel Golfo.
Lo scenario sarebbe invece profondamente diverso se il vantaggio del «No» si confermasse nelle urne. Il governo si dimetterebbe o quantomeno il suo futuro sarebbe a rischio, quindi l’aumento di capitale di Mps risulterebbe congelato. Lo sarebbe a causa della natura stessa dell’operazione: oggi per un investitore estero trasformare il proprio denaro in azioni di nuova emissione di Siena appare razionale solo nell’ambito di un’intesa più ampia con il governo italiano. Quest’ultimo dunque dovrebbe poter godere di un’aspettativa di vita almeno di alcuni anni, per tenere fede alla propria parte delle intese con chi partecipa all’aumento di Mps. Ma se la politica italiana entra in transizione, l’intero percorso è molto più in salita.
I precedenti delle quattro banche «buone» nate dal fallimento di Banca Etruria, CariChieti, CariFerrara e Banca Marche fanno infatti sospettare che anche in Mps verranno alla luce nuove perdite il prossimo anno. Non solo perché già da mesi si sa che la Banca centrale europea sta svolgendo una nuova ispezione su tutti i crediti concessi da Siena, quindi nel 2017 potrebbero emergere altri prestiti in insolvenza e dunque un’ulteriore erosione del patrimonio della banca. Pesa anche la natura dell’attuale «pulizia» del bilancio, che si concentra sui casi di default conclamato dei debitori ma non ancora su una massa di situazioni controverse del valore di circa altri 20 miliardi di euro.
Una Montepaschi liberata dalle insolvenze sarebbe comunque più sana e redditizia di molte altre banche italiane, ma chi partecipa ora all’aumento di capitale sa di poter perdere molto del proprio denaro entro il prossimo anno. Non stupisce che il recente tour fra gli investitori esteri di Marco Morelli, l’amministratore delegato, non abbia suscitato entusiasmi. I fatti dicono che una ricapitalizzazione di Siena sul mercato oggi è possibile solo se esiste un governo in grado di indicare un orizzonte – e magari far balenare nuovi affari – a chi decide di impegnarvi le proprie risorse.
È qui che i dilemmi del referendum e di Montepaschi si incrociano con quelli della Banca centrale europea. Mps è sotto la pressione dei regolatori perché ceda i propri crediti inesigibili, ma lo faccia entro il 2018. La banca ha anche fallito gli «stress test» a fine luglio, ossia si è dimostrata incapace di sostenere un ipotetico scenario di recessione. Eppure formalmente i regolatori europei non hanno indicato per questo una data entro la quale Siena deve trovare nuovo capitale, oppure essere messa in un fallimento ordinato. La pressione della vigilanza è fortissima, ma da Siena e dalle autorità italiane verrà la richiesta a Francoforte di avere più tempo se mai nel referendum dovesse vincere il «No». Questa diventerà una decisione politica al più alto livello in Europa.
L’alternativa è nazionalizzare Mps; per il governo, ciò implica portare quasi a zero il valore delle obbligazioni subordinate per poi rimborsare le famiglie coinvolte. L’impatto sul Paese non sarebbe morbido. Sarebbe la prova che questa «unione» bancaria europea favorisce l’instabilità, specie se unita a un’imprevedibile scommessa referendaria.