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 2016  novembre 23 Mercoledì calendario

«Mi chiamo De Sica e sono orgoglioso del mio cognome»

TORINO ANDREA De Sica è figlio di Manuel e nipote di Vittorio. Trentacinque anni, laurea in filosofia e studi al Centro sperimentale, porta il suo I figli della notte al Torino Film Festival, unico italiano in concorso. Favola nera, racconto di formazione di due allievi di un collegio isolato tra le nevi dell’Alto Adige, dove genitori ricchi e assenti spediscono i rampolli per prepararli agli impegni futuri da classe dirigente. Di giorno, la repressione, di notte una trasgressione che abita in una casetta nel bosco, a luci rosse. «Sono partito dal senso di abbandono che si prova a 16 anni, quando non si ha una forma decisa e si possono compiere scelte che marchiano la vita in modo indelebile. Io stesso ho vissuto questo senso di spaesamento, il terrore del futuro».
I suoi adolescenti sono diversi da quelli raccontati dal cinema italiano.
«Sì, niente buoni sentimenti e battute spiritose».
Il film si tinge di horror, ed è ricco di citazioni d’autore.
«Lynch, Bellocchio e Kubrick. Ho trasformato il Grand Hotel Dobbiaco in una sorta di Overlook Hotel di Shining, mi divertiva avere un corridoio della scuola con gli stessi colori. Il fascino per il cinema oscuro arriva dall’infanzia. I miei genitori erano separati, dormivo nel letto con mia madre, e poi con mio padre. Loro guardavano di notte i film da grandi. Pensavano che dormissi, invece io sbirciavo. Ricordo la notte di Velluto blu con mio padre, in un albergo di Saturnia. E quella con mia madre (la produttrice Tilde Corsi, ndr) e Il cattivo tenente.”Ma cosa vedono i miei genitori?”, pensavo. Il cinema era per me una cosa terribile, fascinosa, proibita, piena di sensualità. Poi, certo, ero anche un cultore dei cartoni animati, della New Hollywood anni Settanta. Papà aveva 15mila titoli in casa, un corridoio che sembrava un museo, ci portavo i miei amici. Mi ha trasmesso l’amore per il cinema».
Quindi l’ha incoraggiata a fare il regista?
«All’inizio no, proprio come suo padre aveva fatto con lui. Amavo le costruzioni e lui mi sognava ingegnere. Era un uomo puntiglioso, un padre difficile. Tutto è cambiato verso i miei vent’anni, quando ha iniziato ad avere nei miei confronti una stima imbarazzante».
Avrebbe dovuto comporre la colonna sonora del suo film.
«Già. Ma quando è morto ho deciso che l’avrei fatta io. Nel periodo in cui ero dj ascoltavamo insieme l’avanguardia elettronica. Era un musicista classico, ma aveva ereditato dal nonno una grande libertà mentale».
Il rapporto con la figura di suo nonno?
«Problematico, mutevole. Da bimbo lo confondevo con Totò. Poi ne ho scoperto l’immensa grandezza. Sono cresciuto con i racconti di mia nonna, Chaplin che faceva per lei il teatro delle marionette con le posate... Papà mi raccontava il mondo antico di Vittorio: dalle ghette a quel suo cinema capace di grande modernità. Mi dispiace che in Italia ci si affidi a celebrazioni polverose, asfittiche, noiose. Il suo è un cinema vivo che meriterebbe di tornare in sala. Mio padre fece restaurare i suoi film, io vorrei continuare in quest’opera».
I De Sica sono una famiglia unita?
«Mio cugino Brando è un fratello; zio Christian lo vedo poco solo perché lavora tanto. Tutti noi sentiamo un grande senso di appartenenza».