la Repubblica, 23 novembre 2016
Scaffali vuoti e prezzi alle stelle così la crisi piega l’Egitto di Al Sisi
IL CAIRO Alle 3 di notte i blindati della polizia che presidiano piazza Tahrir sono chiusi, sprangati dal di dentro. I poliziotti dormono, ci sono poche sentinelle fuori, anche loro semi-addormentate, ma non c’è nessun bisogno di mantenere alta la guardia: la grande giornata di protesta dell’11 novembre è fallita, e da allora in pubblico il regime ha allentato la pressione su Fratelli Musulmani e oppositori liberali. Ieri i giudici della Corte di Cassazione hanno perfino deciso di annullare la condanna all’ergastolo contro Mohamed Morsi, il presidente islamista arrestato dai generali dopo il golpe del 2013: il suo processo deve essere rifatto. Da allora nessuno più ha occupato piazza Tahrir, una nuova rivolta contro il regime militare per ora sembra congelata, anche se la situazione economica terrà il Paese sull’orlo del collasso ancora per anni.
Qualcosa cambia nell’Egitto di Abdel Fatah Al Sisi. Da quando è stato eletto Donald Trump, per il generale è svanito l’incubo di vedere Hillary Clinton presidente negli Usa. E invece è diventato reale il sogno di avere un alleato alla Casa Bianca. Il generale lo ha ripetuto anche ieri durante una visita in Portogallo, «Trump saprà comprendere bene il Medio Oriente, lui capisce le dinamiche della regione e dell’Egitto».
Trump non solo è il presidente a cui Al Sisi ha fatto la prima telefonata di un leader straniero il 9 mattina; Trump significa l’esatto contrario di Clinton, che da segretario di Stato dopo la rivoluzione del 2011 aprì la politica estera americana ai Fratelli Musulmani. Con Trump, e soprattutto con gli uomini della sua squadra (dal generale Michael Flynn al libanese-americano Walid Phares) l’Egitto ritrova un’intesa poderosa con l’America contro i Fratelli Musulmani.
«I diavoli non si sono trasformati in angeli e i problemi peggiori sono ancora in agguato», dice Amr, un giornalista che lavora per uno dei giornali della galassia governativa, «il primo problema rimane l’economia». L’America di Obama ha appena dato il suo assenso al prestito da 12 miliardi di dollari del Fondo monetario, soldi ottenuti varando riforme economiche poderose.
Al Sisi ha iniziato a tagliare i sussidi, ma la decisione più coraggiosa è stata presa dalla Banca centrale che ha scongelato il cambio fisso tra lira egiziana e dollaro. Il dollaro è salito da 8,8 lire egiziane prima a 13, poi a 18, dovrebbe arrivare anche a 20. Ci sono proteste ma per ora la situazione è ancora sotto controllo. Un banchiere europeo dice che però il peggio potrebbe ancora venire: «L’Egitto è il primo importatore di grano al mondo, metà del cereale lo deve comprare all’estero. Importa più della metà dello zucchero che consuma, e lo zucchero è il primo alimento capace di fornire calorie alla sua poverissima popolazione. Col dollaro così alto tutto costerà molto di più».
Tre settimane fa, poco prima dello sblocco del cambio, lo zucchero era scomparso dai negozi, e l’esercito aveva deciso di sequestrarne dalla sera alla mattina 20mila tonnellate entrando in depositi privati e fabbriche, come Pepsi Cola e aziende di dolci. Ancora: l’abolizione progressiva dei sussidi alla benzina ha portato su il prezzo dei carburanti del 37%, del gas in bombole per cucinare del 35%, la bolletta elettrica è salita del 43%. L’inflazione è già al 14% ma con il cambio liberalizzato e con l’aumento dei prezzi dei beni di consumo, la corsa riprenderà verso l’alto.
All’università americana gli studenti provano a raccontare la loro verità: «L’11 novembre la protesta è fallita perché noi stessi non crediamo che sia questo il momento, il Paese ha sofferto troppo». «Ma le condizioni per una nuova esplosione ci sono tutte: l’economia va sempre peggio, lo Stato di polizia rimane ingiusto e oppressivo. Fra un mese, fra un anno o fra 5 anni la disperazione sarà più forte della paura».
Al Sisi nel frattempo aspetta Trump come una benedizione dal cielo. I media che sostengono il generale sono stati presi da un entusiasmo che a volte oltrepassa il ridicolo. Secondo Abdel Rahim Ali, il direttore del sito di notizie Albawaba, Trump avrebbe detto che addirittura «il presidente Al Sisi è il mio modello». Un sito cita Walid Phares, il consigliere di origini libanesi di Trump, facendogli dire che «il sostegno di Al Sisi per Trump ha aiutato a convincere gli americani a votare per lui». Tutta propaganda, offerta agli egiziani per far capire loro che adesso con Trump non c’è alternativa al regime dei militari. Sembrava dovesse arrivare una presidente che avrebbe lavorato per cambiare verso all’Egitto. E invece il generale si ritrova con Trump, un amico. Nella notte del Cairo per ora i poliziotti riposano.