Il Sole 24 Ore, 23 novembre 2016
Dalla crisi alla fase 4 dell’era Putin
Alcuni indicatori iniziano a volgere al bello, o meglio a un’attenuazione della crisi. L’inflazione sta rallentando, le importazioni sono tornate a crescere per la prima volta dal dicembre 2013, aiutate dalla stabilizzazione del rublo che nel 2017, con la relativa ripresa dei prezzi del petrolio, dovrebbe contribuire a incoraggiare il miglioramento di consumi privati e investimenti. Nel secondo semestre il picco della crisi è passato, dicono gli analisti della Banca mondiale migliorando le previsioni sull’andamento dell’economia russa per quest’anno. Il calo del Pil è stato ridimensionato da -1,2 a -0,8 e poi a -0,6%, riflesso della crescita di servizi, costruzioni, trasporti, telecomunicazioni: con un ruolo significativo delle spese governative, sottolinea il rapporto della World Bank pubblicato il 9 novembre scorso.
La stima del Pil a -0,6 è in linea con le attese del ministero russo dell’Economia: ma in questo caso la revisione è stata al ribasso, rispetto a un calo previsto a -0,2%. La fine della recessione, si avverte, non vedrà uno scatto deciso della crescita, ma rischia di sfociare in una stagnazione prolungata per alcuni anni a venire. Prospettiva che non entusiasma il Cremlino, concentrato sulle presidenziali del 2018 e determinato a indirizzare il governo verso un’impostazione meno rigorista. E forse aveva infastidito qualcuno l’insistenza con cui il cauto Aleksej Uljukajev, ministro per lo Sviluppo economico, ripeteva che non si deve abbassare la guardia e che l’economia russa aveva toccato un fondo da cui non è facile risalire. Lo avevano soprannominato “scuba diver”, per questo.
Dal 15 novembre scorso, Uljukajev è agli arresti domiciliari. Accusato di aver preteso da uno degli uomini più potenti di Russia, Igor Sechin, una mazzetta da due milioni di dollari per dare il proprio assenso all’acquisizione di una compagnia petrolifera, Bashneft, da parte di Rosneft, la compagnia di Sechin. Idea sbeffeggiata a più voci, a Mosca: assurdo pensare che un ministro in politica da 23 anni sia stato così ingenuo da sfidare apertamente Sechin per pochi “spiccioli” (almeno per le tasche di un ministro). Tanto più che per sbloccare un’operazione tanto controversa – la privatizzazione di una compagnia di proprietà statale da parte di un’altra compagnia controllata dallo Stato – non stavano certo ad aspettare il via libera di Uljukajev, in un Paese in cui su questioni di questo livello chi decide è uno solo.
La ricerca di un senso nella vicenda di Uljukajev può però aiutare a capire la direzione in cui sta andando questa Russia già proiettata verso il quarto mandato del presidente Vladimir Putin e galvanizzata dall’arrivo alla Casa Bianca di un uomo che promette un atteggiamento completamente diverso nei confronti di Mosca. Uljukajev potrebbe essere stato messo nel mirino per la sua reticenza ad avallare il bilancio espansivo di cui il Cremlino ha bisogno in vista del voto, per la prudenza su stime di crescita che guardano al contenimento del deficit invece di incoraggiare la spesa. Oppure il suo arresto è stata la vendetta di Sechin per aver avversato fin dall’inizio la vicenda Bashneft. Un regolamento di conti e un avvertimento al resto del governo prima di passare alla tappa successiva, la privatizzazione di una quota del 19,5% di Rosneft – valore stimato a 11 miliardi di dollari – sul 70% di azioni in mano allo Stato. L’idea è che sarà proprio la compagnia di Sechin a comprare se stessa. Anche qui Uljukajev aveva avuto da ridire.
Ma a manifestare perplessità su queste “pseudo-privatizzazioni” non era solo. Con lui Putin ha allargato alla sfera del governo la sua lotta alla corruzione, riprendendo un’offensiva che nei mesi scorsi ha visto allontanare governatori, dirigenti federali, funzionari dei servizi investigativi. Ampiamente pubblicizzata sui media, la guerra alla corruzione mira a rafforzare il consenso verso il presidente, dirottando sugli accusati il risentimento generale degli elettori, il malumore per le difficoltà che la crisi riversa sulla vita quotidiana.
Il caso Uljukajev, però, è soprattutto politico: riguarda la ricostruzione della cerchia interna del presidente, che sta allontanando e sostituendo alleati di antica data e di peso, fino a poco tempo fa ritenuti intoccabili. Come Serghej Ivanov, braccio destro di Putin al Cremlino, o Vladimir Yakunin, l’ex capo delle ferrovie. L’entourage del presidente si sta ripopolando di funzionari giovani, a cui lo zar non deve nulla e che dovranno tutto a lui. Attraverso Uljukajev, l’avvertimento è arrivato ora anche al blocco dei cosiddetti economisti liberali da cui, come da chiunque altro, Putin pretende lealtà servendosi della paura.
«Putin – spiega Aleksej Navalnyj, uno dei volti più noti dell’opposizione – teme il tradimento della sua stessa cerchia interna. Per evitarlo, fa quello che ogni regime autoritario ha fatto nella storia: terrorizza la propria cerchia mandando un segnale, in modo che tutti abbiano paura». L’arresto di Uljukajev ricorda quelli dei funzionari trascinati via di notte sotto gli occhi dei vicini, negli anni del terrore staliniano. L’esempio di uno, il più vulnerabile, per tenere sotto controllo gli altri. «Nessuno deve sentirsi immune», osserva il premier Dmitrij Medvedev, dimenticando forse che l’ala liberale del governo fa però capo a lui: i vicepremier Igor Shuvalov e Arkadij Dvorkovich, il consigliere del presidente Andrej Belousov. Il giorno dopo l’arresto di Uljukajev sono stati perquisiti gli uffici di Rusnano, la compagnia specializzata in nanotecnologie e guidata da Anatolij Ciubais. L’ombra si allunga sul padre delle privatizzazioni di Boris Eltsin?
Come gli altri, dovrà capire da che parte tira il vento. Al bivio tra le posizioni dei riformatori e lo statalismo dei “siloviki”, i “falchi” esponenti dei servizi di sicurezza e dei ministeri forti, Putin ha sempre cercato di mantenere un equilibrio, magari usando gli uni contro gli altri. Rispettoso della competenza di “tecnici” come Elvira Nabiullina, la presidente della Banca centrale, o di Aleksej Kudrin, l’ex ministro delle Finanze richiamato come consulente: ma determinato a rafforzare il ruolo dello Stato nell’economia, baluardo del Cremlino. Tra il 2005 e il 2015 la quota del Pil russo legato alla produzione di compagnie controllate dallo Stato o interamente di proprietà dello Stato è cresciuta dal 35 al 70%, a partire dal settore energetico dominato da Rosneft. Non abbiamo intenzione di costruire un capitalismo di Stato, né di scoraggiare gli investimenti stranieri in Russia, sostiene Putin. Eppure questo modello di economia di controllo basato sul predominio dello Stato, a cui viene asservita ogni logica di mercato, è un ingrediente chiave del “putinismo”, ora che si profilano nuove importanti privatizzazioni per finanziare il budget (dati i limiti di finanziamento imposti dalle sanzioni), e che l’obiettivo della riconquista del Cremlino allontana la prospettiva di nuove riforme, almeno fino al 2018.
A quell’obiettivo, il quarto (e ultimo?) mandato di Putin, tutto verrà subordinato. La gestione dell’economia, le scelte di politica estera, le riletture della storia nazionale, tutto punterà a mantenere la stabilità e il consenso (oggi superiore all’80%) necessari al presidente. Che, secondo quanto ha rivelato di recente l’agenzia Bloomberg citando persone coinvolte nell’operazione, si sta affidando a una nuova generazione di collaboratori per “rinfrescare” il sistema, ammorbidirne il conservatorismo, modernizzare l’economia, conquistare ulteriore sostegno sociale. La necessità di esibire elezioni convincenti potrebbe addirittura prevedere la partecipazione di Navalnyj: Putin ha bisogno di un avversario credibile da battere. Il piano sarebbe stato affidato al 54enne Serghej Kirijenko, giovane primo ministro di Eltsin nei giorni in cui la Russia proclamò il default, e poi capo di Rosatom, il cuore dell’industria nucleare russa. Kirijenko, venuto dalla squadra dei riformatori, sarebbe il volto che rinnova quello di Putin. Di sicuro, prima o poi, qualcuno lo indicherà come uno dei possibili eredi.