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 2016  novembre 22 Martedì calendario

Dimettersi prima del referendum? 
Ecco perché Renzi non lo farà


Caro Sorgi, il premier Renzi – e in questo mi ha ricordato Hillary Clinton, quando, in campagna elettorale, definì la «metà dei sostenitori di Trump un branco di miserabili» – l’ha chiamata «accozzaglia»: la convergenza sul «No» di buona parte della sinistra (anche Pd), il movimento rivoluzionario di Grillo, la Cgil, l’Associazione Partigiani, con Salvini, Berlusconi e costituzionalisti di cattedra. Forse deve prendere atto che larga parte degli italiani, anche tra coloro che non disprezzano del tutto il suo operato (soprattutto in campo diplomatico), non vede di buon occhio la riforma Boschi-Renzi-Verdini.

Io non credo e non voglio pensare che i discendenti di Dante e Manzoni siano un’accozzaglia di ignoranti, populisti e cialtroni. Personalmente sono favorevole alla creazione di un governo Renzi bis con nuovi ministri e l’apertura alla collaborazione, per le questioni inerenti la Carta, dei maggiori costituzionalisti, filosofi e letterati italiani. 

Matteo Renzi («L’unico vero leader italiano», secondo Berlusconi) deve sorprenderci tutti e giocare d’anticipo. Come re Umberto II, che non attese l’esito definitivo della sentenza sul referendum Monarchia/Repubblica del giugno ’46, dia le dimissioni e salga al Quirinale. Il presidente Mattarella saprà certamente qual è, in questo momento, la soluzione migliore per il bene del nostro Paese. Si affidi e consegni a lui.

Stefano Masino Asti

Caro Masino, il premier Renzi ha sicuramente commesso un grave errore a definire «accozzaglia» la variegata compagnia del «No» in cui militano leader di partito e di sindacato, esponenti di sinistra e di destra e autorevoli professori, oltre naturalmente, come lei ha ricordato, a una larga schiera di elettori che il 4 dicembre voteranno in piena legittimità per bocciare la riforma. Il premier infatti se n’è accorto, s’è corretto e s’è scusato. Quanto alla possibilità che, seguendo il suo consiglio, si dimetta prima di conoscere i risultati del voto, la considero altamente improbabile, tanto il referendum sarà comunque celebrato e sarà il responso delle urne a decidere il destino del governo. 

Per inciso, anche nell’ipotesi da lei avanzata, Renzi non avrebbe da prendere alcun esempio dall’ultimo re d’Italia. Umberto II, salito al trono solo il 9 maggio 1946, attese fino al 10 giugno, sette giorni dopo la chiusura delle urne del plebiscito del 2-3 giugno, la comunicazione da parte della Cassazione dei «risultati provvisori» che assegnavano la vittoria alla Repubblica per circa due milioni di voti. Lo stesso giorno il governo si riunì e assegnò a De Gasperi i poteri di «capo provvisorio dello Stato» per guidare la fase di transizione. Il 12 giugno il re diramò un comunicato in cui si opponeva alla decisione del governo, definendola «gesto rivoluzionario», e annunciava che sarebbe rimasto in carica fino al 18 giugno, data scelta dalla Cassazione per comunicare i risultati definitivi, dopo l’esame dei ricorsi e della questione delle numerose schede bianche e nulle. De Gasperi a quel punto andò a trovarlo al Quirinale e gli disse senza mezzi termini che o mollava, o lo avrebbe fatto arrestare. Così la mattina del 13 giugno il «re di maggio» lasciò l’Italia.