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 2016  novembre 22 Martedì calendario

L’amaca di Michele Serra

«GUARDO la televisione, i talk show con tutti che urlano e si lamentano, e mi sembra di vivere all’inferno. Poi guardo dalla finestra e mi sembra di vivere in un posto normale. Con problemi ma normale». Il meccanico pachistano vive qui da trent’anni. Ha sposato un’italiana, ha figli italiani, è contento del suo lavoro, la globalizzazione per lui e per molti altri ha significato stare meglio, molto meglio di quello che il destino avrebbe potuto riservargli. Quando parliamo di globalizzazione pensiamo ai contraccolpi negativi che ha avuto dalle nostre parti: perdita di posti di lavoro, maggiore precarietà sociale, meno garanzie, smarrimento identitario. Ci dimentichiamo del colossale balzo in avanti che centinaia di milioni di persone hanno potuto fare in Asia e in parte dell’Africa e del Sudamerica. Mentre noi scendevamo di un gradino, loro salivano una intera scala, partendo da zero.
Il nostro concetto di globalizzazione non è per niente globalizzato, e questo ci impedisce di coglierne le ragioni profonde, che sono quelle della più colossale inclusione della storia. Viaggia chi prima non viaggiava, guadagna chi prima non guadagnava, mangia chi prima non mangiava. L’umanità intera pretende di vivere e non più di vegetare, e questa non è una novità che può essere ignorata se non si vuole sbagliare analisi. La parola più pronunciata in Occidente, da Brexit in poi, è “esclusione”; è vera, è percepibile, ma riguarda pezzi di noi, non il mondo. Il mondo, nella sua totalità, oggi è molto più inclusivo di ieri.