Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2016  novembre 21 Lunedì calendario

Metodo Nagelsmann l’allenatore bambino. «L’età non è un limite»

A VOLTE il destino è un cognome. Nagelsmann in tedesco significa “l’uomo del chiodo”. A quel chiodo ha appeso gli scarpini, a vent’anni, perché il ginocchio faceva crac: «Avessi continuato avrebbero dovuto sostituirmelo». Ma il calcio è un amore ostinato, morboso, alcolico. Un chiodo fisso, appunto. Ti fa soffrire, tocchi il fondo, e poi all’improvviso sei Fenice. Oggi Julian Nagelsmann ha 29 anni, è l’allenatore più giovane della storia della Bundesliga, è terzo con l’Hoffenheim e le sue tremila anime, altro miracolo teutonico dopo il Lipsia capolista. Eppure l’inizio non è stato facile: mesi fa il quotidiano Rhein Neckar Zeitung bollò il suo arrivo come «una trovata pubblicitaria, un’idea squinternata». E invece. «Essere ‘mister’ a quest’età non è stata una fortuna nella disgrazia», spiega Nagelsmann in questa intervista esclusiva a Repubblica.
«Era solo destino».
Perché Nagelsmann, già un figlio e una passione smodata per la natura e l’Europa unita, una decina di anni fa era una giovane promessa del calcio tedesco. Capitano delle giovanili del Monaco 1860, poi l’Augsburg, poi il menisco e la cartilagine delle ginocchia si sbriciolano. Ciao Julian. «Il mio sogno da bambino è morto all’improvviso. Tutte le mie speranze sono svanite in un attimo. Così ho deciso di mettermi a studiare economia aziendale».
Ma poi non ha resistito.
«Un giorno all’università ho ricevuto una chiamata dalle giovanili del Monaco 1860. Subito mi è tornata la febbre del calcio, era altissima. Ho abbandonato la laurea, mi son messo a studiare per diventare allenatore».
Era il 2008. Lì diventa il secondo di Thomas Tuchel, oggi kaiser del Borussia Dortmund. Due anni dopo passa alle giovanili dell’Hoffenheim, dove trionfa nel 2014. Poi, l’anno scorso, la prima squadra punta tutto sul 28enne Nagelsmann. Lei salva l’Hoffenheim dalla retrocessione e quest’anno è già terzo in Bundesliga, alla sua età.
«So bene che devo imparare tanto. Ma la mia età è questa, cosa posso farci? Per me non è un problema. Non ho mai avuto paura, e mai ne avrò. Posso vivere anche senza il circo della Bundesliga e tornare alle giovanili, sarei felicissimo ugualmente».
Ma per favore, in Germania già la chiamano “Mini-Mourinho”.
«Quello è un soprannome che mi dato Tim Wiese (ex portiere dell’Hoffenheim e della nazionale tedesca, oggi wrestler, ndr). Non mi dà fastidio, anche se fra me e Mourinho c’è molto poco in comune, e non parlo solo di filosofia di gioco. Ma oramai non posso farci niente».
E invece chi sono i suoi allenatori modello?
«Guardiola, Tuchel, Klopp. Hanno un ottimo approccio tattico e fanno divertire i tifosi. Ma non è che uno come me può solo copiarli, anche perché tra allenatori c’è una competizione feroce. Bisogna trovare la propria filosofia, la propria strada».
E dove la porterà la sua strada? Tutti sono convinti che lei sia un predestinato.
«Il mio unico obiettivo adesso è ripagare la fiducia che mi ha dato l’Hoffenheim e portare la squadra più in alto possibile. Per il momento mi basta la vittoria del campionato delle giovanili di due anni fa».
Come fa a mantenere l’autorità con giocatori più grandi di lei?
«Ricordo il primo incontro con la squadra e il discorso che feci, dopo essermelo preparato tutta la notte precedente. I giocatori erano seduti ai loro posti. Io ero molto teso, lo spogliatoio a un certo punto mi sembrò enorme. Dovevo stare attento non solo a quello che avrei detto, ma anche ai modi, ai movimenti del corpo. È fondamentale se sei un allenatore. Ma andò tutto bene. In quel momento ho capito che saremmo stati una squadra».
Oltre a essere il loro mister, è anche un amico nei confronti dei suoi giocatori-coetanei?
«Assolutamente no. Ho un rapporto aperto con loro, e la mia età lo facilita. Ma non potrò mai essere un loro amico. Anche nelle giovanili, finito l’allenamento, ognuno per la sua strada. Perché bisogna sempre averne la guida, salda. La tattica conta solo per il 35-40 per cento del risultato finale. Il resto lo fa il rapporto con i calciatori. Puoi essere un genio del calcio, ma se hai un cattivo rapporto con il gruppo il successo durerà poco e con molte squadre fallirai».
Parla già come un Trapattoni, lo sa?
«Invece parlo semplice. In una squadra tutti devono remare dalla stessa parte. Anche i nostri calciatori, non li scegliamo solo per le loro qualità. Il carattere conta moltissimo. Se vuoi giocare nell’Hoffenheim, devi superare anche un colloquio, come un lavoro normale. E per noi è fondamentale».