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 2016  novembre 20 Domenica calendario

Da Jefferson a The Donald quando il voto per il presidente cambia la storia dell’America

L’ELEZIONE di Donald Trump a presidente degli Stati Uniti ha lasciato di stucco molti americani (ed entusiasmato molti altri). Qui si era sviluppata tutta un’industria di sondaggi, e di sondaggi di sondaggi e analisi di sondaggi, e i drogati di elezioni avevano passato ore e ore negli ultimi mesi a controllare compulsivamente l’andamento presunto della competizione.
Per quasi tutta la campagna, Hillary Clinton è stata favorita per la vittoria. Il New York Times le assegnava l’84 per cento di probabilità di prevalere. È stata un’ondata di consenso tra gli elettori bianchi senza titolo di studio universitario a sospingere la vittoria di Trump, e ora giornalisti e commentatori si battono il petto e si rinfacciano l’un l’altro di aver sottovalutato questo aspetto cruciale del voto di quest’anno. Sono state rispolverate le analogie con il referendum sulla Brexit della scorsa estate (che erano state accantonate quando i sondaggi sembravano indicare una vittoria della Clinton).
Anche se fosse stata prevista, una vittoria di Trump avrebbe rappresentato uno shock per il sistema politico americano (e per gli alleati dell’America): naturalmente ora lo shock è ancora maggiore, perché inaspettato. Ma non è la prima volta che il risultato di un’elezione presidenziale americana sembra destinato a strattonare la storia della nazione in una nuova direzione.
Il primo sommovimento di questo genere arrivò con l’elezione a presidente di Thomas Jefferson nel 1800. Jefferson sconfisse John Adams, a cui aveva fatto da vicepresidente (il primo sistema elettorale della nazione stabiliva che il secondo classificato nelle elezioni presidenziali diventava vicepresidente, un difetto che venne presto corretto). Nonostante il suo ruolo, Jefferson si era fortemente opposto alla politica estera di Adams alla fine degli anni ‘90 del Settecento, quando le tensioni marittime tra Stati Uniti e Francia sfociarono nella cosiddetta Quasi-Guerra. L’elezione del francofilo Jefferson più che un cambio di rotta a molti nel partito federalista, la formazione a cui apparteneva Adams, sembrò una legittimazione del tradimento. Nel 1800 la spaccatura era fortemente sentita.
L’elezione più conflittuale nella Storia americana fu quella del 1860, una corsa a quattro che si concluse con una vittoria netta (per numero di grandi elettori) di Abramo Lincoln (n termini di voto popolare, prese poco meno del 40 per cento). L’affermazione di Lincoln condusse alla secessione degli Stati schiavisti del Sud e poi alla Guerra di Secessione, il conflitto più sanguinoso nella storia degli Stati Uniti: è un precedente utile a ricordare che le conseguenze della polarizzazione politica a volte possono essere terrificanti.
Più di recente, un’altra elezione che segnò un cambio di rotta di vastissime proporzioni per gli Stati Uniti avvenne nel 1980 con la vittoria di Ronald Reagan. Dopo la seconda guerra mondiale, presidenti repubblicani come Eisenhower e Nixon avevano tentato di contenere, ma non di smantellare, il grosso della legislazione sociale introdotta ai tempi del New Deal, come il sistema previdenziale pubblico e le tutele legali per i sindacati. La retorica di Reagan lasciava presagire politiche di destra più aggressive.
Reagan, essendo stato in precedenza un attore, veniva spesso trattato come un outsider della politica, nonostante fosse stato due volte governatore della California. Il suo atteggiamento gioviale, la sua preparazione approssimativa, la sua tendenza a parlare di aneddoti più che di politiche concrete lo facevano apparire a molti giornalisti come un peso piuma, non adatto a una carica come quella di presidente.
Per un lungo periodo, durante la campagna del 1980 contro Jimmy Carter, questo atteggiamento convenzionale resse, nonostante la crisi degli ostaggi in Iran e i problemi dell’economia. Fu solo dopo l’unico dibattito di quell’anno tra i due candidati, una settimana prima del voto, che Reagan passò in testa e riportò una vittoria decisiva.
La spinta in favore dei repubblicani di quell’ultima settimana fu sufficiente a eleggere Reagan e a conquistare 12 seggi in Senato, sostituendo una maggioranza democratica con una repubblicana. Il fatto che questo vecchio attore hollywoodiano di serie B fosse riuscito non solo a vincere, ma anche a conquistare la camera alta segnò un’importante svolta a destra nella politica americana.
La sfida di quest’anno ha evidenziato una divergenza enorme fra i sostenitori di tutti i candidati importanti e ha presentato alla nazione i due candidati più impopolari da quando esistono i sondaggi di opinione. Nel dibattito politico attuale non esiste una questione profonda e sentita com’era il dibattito sulla schiavitù ai tempi di Lincoln, ma ci sono molti temi – l’immigrazione, la tolleranza religiosa (o la mancanza di tolleranza religiosa), le discriminazioni razziali e cose del genere – che segnalano divisioni enormi all’interno dell’opinione pubblica americana.
I repubblicani avranno il controllo della Casa Bianca, del Senato e della Camera dei rappresentanti. E ben presto toccherà a Trump cercare di riempire il posto vacante in una Corte suprema divisa esattamente a metà. Almeno per i prossimi due anni, il nuovo presidente potrebbe avere praticamente mano libera a Washington.
Lo shock della vittoria di Trump non ha fatto che evidenziare la profondità delle divisioni attuali. Lo shock passerà e il 20 gennaio il nuovo presidente entrerà in carica. La sua campagna elettorale è stata inusitatamente avara di particolari su quali siano i suoi programmi, a parte i proclami che qualunque cosa avrebbe fatto sarebbe stata «grande». Ma quando entrerà in carica, le sue proposte dovranno tradursi in leggi o atti amministrativi. E allora vedremo come reagiranno gli esponenti più importanti di Camera e Senato (di entrambi i partiti). A quel punto forse sarà lo stesso presidente Trump ad avere qualche sorpresa.
E tutti noi altri.