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 2016  novembre 20 Domenica calendario

«Sono un uomo, non sono una scarpa, ma racconto le storie di chi le ama». Intervista a Stan Smith

«Per me era solo una scarpa. Bella, comoda, di grande successo, mi aveva fatto guadagnare soldi e ne ero orgoglioso. Però comunque una scarpa. Poi un giorno un ragazzo si avvicinò, e mi disse che si era sposato indossandola, perché la portava quando aveva conquistato la sua fidanzata. Allora capii che era diventata una roba diversa, un’icona della nostra generazione».


Questa illuminazione fece venire a Stan Smith un’idea: «Scrivere un libro con tutte le storie più singolari legate alla mia scarpa». E così è stato. Il prossimo 14 dicembre Stan compirà 70 anni, e nel quarantacinquesimo anniversario dell’endorsement dell’Adidas che ancora porta il suo nome, ha cominciato a raccogliere le memorie: «Non le mie, o non solo, ma soprattutto quelle della gente. Ho chiesto a tutti di mandarmi le storie più curiose che hanno sulla mia scarpa, e conto di pubblicare il libro alla fine dell’anno prossimo».
Smith ride, mentre spiega il suo progetto dalla Hilton Head Island della South Carolina, dove oggi vive gestendo un’accademia di tennis. Ride per la casualità della vita, che ne ha fato un mito.

Cominciamo dal principio. Dicono che lei fosse un ragazzo californiano piuttosto goffo.

«Alto e scoordinato. Avevo cominciato tardi a giocare, vincendo il primo torneo a 16 anni, ma ero così goffo che avevano rifiutato di farmi fare il raccattapalle durante una partita di Coppa Davis a Los Angeles fra Usa e Messico. Dicevano che ero un pericolo per i giocatori».

Quando ha capito che invece aveva il talento per diventare il numero uno del mondo?

«Vinsi il campionato nazionale juniores quasi senza allenarmi, e allora mi resi conto delle mie potenzialità. Poi ebbi la fortuna che il tennis divenne open proprio nel 1968, l’anno in cui mi laureai, e questo mi consentì di diventare subito professionista».

Quale fu la svolta della sua carriera?

«Il Masters del 1970 a Tokyo, il primo mai giocato. Andai senza troppe speranze, ma comincia a battere tutti. Poi il 14 dicembre, giorno del mio ventiquattresimo compleanno, capitarono due cose che resero quella data speciale. Battei Rosewall, assicurandomi la vittoria nel Masters, e ricevetti la cartolina militare, che mi ordinava di presentarmi in caserma due giorni dopo a Los Angeles».

Erano anni difficili, c’era la guerra in Vietnam. Come la prese?

«Sapevo di essere nelle liste della leva, ma non feci nulla per oppormi. Non ero un tipo come Muhammad Ali, non potevo rifiutarmi di partire. Molti ragazzi che avevano fatto l’addestramento di base con me finirono in Vietnam, ma io fui fortunato. Mi mandarono a Fort McNair, vicino Washington, e mi lasciarono giocare a tennis per l’esercito. Vincemmo due Coppe Davis e ne sono orgoglioso».

Pensava che fosse suo dovere servire?

«Sì, anche se molti mi accusarono di essermi imboscato, dicendo che non era giusto tenermi a giocare invece di andare in Vietnam».

Così vennero le vittorie agli US Open e a Winbledon, e la scarpa.

«Horst Dassler aveva sviluppato la prima scarpa da tennis di pelle, e l’aveva intitolata a Robert Haillet, il miglior giocatore francese. L’Adidas però voleva espandersi nel mercato americano, e quindi pensarono a me, che ero diventato il numero uno al mondo. Per tre anni produssero la scarpa con la mia faccia sopra, e il nome di Haillet. Poi divenne solo la Stan Smith».

Ha venduto circa 40 milioni di paia in tutto il mondo. Si rende conto che questa scarpa l’ha trasformata in un’incona?

«All’inizio no. Poi ho cominciato a sentire le storie incredibili da chi l’aveva usata, e ho capito. Non era solo un prodotto, ma una cosa tanto popolare da segnare le vite degli altri. Ci scherzavo su, dicendo che ero un giocatore di tennis, però alcuni pensavano che fossi una scarpa. In realtà ne sono orgoglioso, e ora comprendo la responsabilità che viene con queste fortune».

Da qui l’idea del libro?

«Ho pensato che fosse un peccato perdere tutte queste storie curiose, che legano milioni di persone. Chi ha qualcosa da raccontare mi contatti, perché le sto ancora raccogliendo».

Dopo la carriera si è dedicato all’insegnamento del tennis: perché?

«Ho avuto grandi maestri, mi è sempre piaciuto insegnare, e credo di dover restituire un po’ della mia fortuna».

Tra gli altri, ha aiutato il sudafricano Mark Mathabane a venire negli Usa, facendo pressione contro l’apartheid.

«Era parte della volontà di restituire qualcosa alla società».

Le piace come è diventato il tennis oggi?

«Sul piano tecnico l’evoluzione delle racchette ha dato molto più controllo ai tennisti, rendendo difficile il gioco a rete. Però ci sono molti più giocatori bravi che ai miei tempi, e da molti più Paesi. Alcuni, come Usa e Italia, soffrono perché non hanno buoni programmi di sviluppo e c’è molta concorrenza. Il tennis è diventato un business, ma questo non è un male: è sempre più popolare su scala mondiale, e spero di averlo aiutato».