Il Sole 24 Ore, 18 novembre 2016
Il duello tra Prosecco e «fish & chips»
La realtà è che prosecco e fish and chips vanno molto bene insieme, innovativa metafora eno-gastronomica della convivenza europea che Londra si ostina a rigettare. Quante immagini possono sbocciare dal duello Johnson-Calenda, innescato dal biondo ministro degli Esteri britannico, impegnato a denunciare, semi-serio, il boom del prosecco nel Regno Unito.
Un boom che nei primi nove mesi dell’anno ha visto una crescita a doppia cifra dell’import di bollicine dall’Italia. Una crescita sia in valore che in volume: +46% a 88,5 milioni di sterline e +36% a 36,1 milioni di litri. Dietro una volgarotta esemplificazione del reciproco interesse nazionale avviata da Boris Johnson, si nasconde molto più del destino della nostrana bollicina, divenuta oggetto del desiderio nei pub del Regno. La richiesta sottostante, impacchettata in un’imbarazzante minaccia – non esporterete più prosecco – è evidente: italiani aiutateci a uscire dalla impasse della Brexit nella quale ci siamo infilati. La replica del ministro Calenda non poteva essere più puntuale, ricordando – per restare sullo stesso terreno scelto da Johnson – che il fish and chips, a causa della Brexit, non rischia di perdere un solo mercato, ma ben ventisette.
Inutile dire che l’export di patatine e merluzzo non vale una frazione del vino veneto bianco e gassato. Ma, appunto, non indugiamo sul concetto per sottrarci a un gioco noioso e inconcludente. Insistere sul prosecco – è cavallo di battaglia dell’ex sindaco di Londra dal convegno di Pontignano di settembre in poi – significa, fra l’altro, glissare su tante altre nobili eccellenze della maison Italia. Non solo cose, ma soprattutto persone. A cominciare dalle migliaia di ricercatori italiani di internazionale grandezza che popolano le accademie britanniche, sfornano idee, mettono a punto progetti, arricchiscono il patrimonio scientifico globale e, in ultima istanza, il libro dei brevetti delle imprese locali. Boris Johnson sorvola. In un’altra battutaccia di qualche settimana fa, anzi, aveva gettato un’ombra sui visti per gli studenti europei, dimenticandosi che con le corpose fee del Vecchio Continente si finanziano le più auguste università del Regno. Quelle stesse università che temono ora di precipitare nel ranking mondiale della scienza a causa della perdita dei finanziamenti europei.
L’autarchia non paga e non solo perché il sidro del Dorset non sostituirà mai il prosecco di Valdobbiadene, ma perché le quattro libertà del mercato interno sono state strette in un unico pacchetto per l’imperativo imposto dalla logica stessa dell’integrazione. Beni, servizi, capitali e persone sono le tante facce della comune maschera fatta di scambi e convivenza in Europa. Londra, sventolando i dazi sul prosecco, protendendo – con arroganza – il cappello verso Roma, cerca di rompere l’assedio che essa stessa si è imposta. Per questo la risposta a ogni tentativo di spacchettare le quattro libertà, lasciando alla Gran Bretagna il privilegio di cogliere dal cestino comune i doni a lei più congegnali, deve essere un “no” fermo e compatto, di tutta l’Unione. Non, si badi bene, in nome dell’ideologia europeista – che pure avrebbe ottime motivazioni per essere evocata – ma per ragioni di opportunità. Cedere alla volontà di Londra significa stabilire un precedente capace di trasformarsi nel detonatore dell’intero castello comune. La Gran Bretagna è sempre più consapevole che i Ventisette non intendono sancire un’eccezione destinata a farsi esempio per tanti, a cominciare dalle capitali più euroscettiche ed euro-egoiste dell’Est, già in scalpitante attesa di rivendicare diritti non scritti. Nasce così la “stretta” sul Prosecco, goffa tattica per irretire un partner che si vorrebbe prono al compromesso, in nome di una salute economica, storicamente, cagionevole.
Sulle scrivanie di Downing street si stanno affastellando ricerche inquietanti sul prezzo della non Europa, inteso come esclusione dal mercato interno. Il più recente indica in decine di miliardi di sterline e decine di migliaia di posti di lavoro i costi economici e sociali prodotti dal trasloco del solo clearing di prodotti finanziari denominati in euro, mentre la voragine aperta nei conti pubblici dall’effetto, diretto e indotto, della Brexit che verrà, raggiunge i 100 miliardi di sterline. Queste devono essere le preoccupazioni della Gran Bretagna, prospettive realistiche di un impoverimento nazionale che nessuno, votando addio all’Unione, aveva scelto consapevolmente di innescare. Il prosecco lo lascino stare se non per riconoscere che con fish and chips s’accompagna bene. Meglio, probabilmente, della Gran Bretagna nell’Unione.