La Gazzetta dello Sport, 18 novembre 2016
Che cosa sarà mai la Post-Verità, si chiedeva l’altro giorno un mio nipote che aveva sentito in televisione qualcosa che era accaduto in Inghilterra e che aveva a che fare, appunto, con questa Post-Verità

Che cosa sarà mai la Post-Verità, si chiedeva l’altro giorno un mio nipote che aveva sentito in televisione qualcosa che era accaduto in Inghilterra e che aveva a che fare, appunto, con questa Post-Verità.
• La Post-Verità è sicuramente una bugia.
Bravo, l’ha indovinata. E come ha fatto a indovinarla?
• Perché una cosa o è vera o non è vera, e non c’è una terza possibilità. Quindi se qualcuno afferma che, oltre alla Verità (ci metto la maiuscola), c’è pure la Post-Verità, mente. Il problema è: come diavolo esce fuori questa faccenda e che c’entra l’Inghilterra?
Sulla cosiddetta verità lei la fa troppo facile.. Ma in ogni caso: la cosa nasce dai professori dell’Oxford Dictionary, un repertorio di termini inglesi che s’è cominciato a raccogliere nel 1857 e la cui ultima edizione (la seconda) è stata stampata nel 1989. 50 milioni di parole, venti volumi, 21 mila pagine. Per leggere tutto ci vorrebbero sessant’anni... Basta. L’Oxford adesso ci interessa perché i suoi professori scelgono ogni novembre la «parola dell’anno» e per il 2016 la parola è appunto «Post-Truth», Post-Verità. I professori giustificano la loro scelta con l’argomento che la Post-Verità descrive «circostanze in cui i fatti obiettivi sono meno influenti sull’opinione pubblica rispetto agli appelli emotivi e alle convinzioni personali». La parola selezionata dovrebbe sia «riflettere l’ethos, l’umore dominante o le preoccupazioni dell’anno», sia «avere un durevole potenziale come parola di significato culturale». Nel mondo anglosassone la parola circola da una decina d’anni, ma nel 2016 il suo uso è aumentato di venti volte rispetto al 2015.
• Scommetto che la colpa è di Donald Trump. Se Trump non avesse vinto le elezioni, i professori avrebbero scelto un altro termine.
Probabilmente è così. Ma la questione che Oxford indica è in ogni caso seria. Il flusso di informazioni che piovono sulla nostra testa è talmente enorme e continuo, che pochissimi di noi sono in grado di distinguere con sicurezza - e immediatamente - la verità dalla bugia, specialmente se si tratta di gente che, alla fin fine, si sente dire quello che vuole sentirsi dire, non importa se vero o falso. Donald ha gonfiato e fatto volare in aria palloni di falsità con grande disinvoltura, sicuro che, rispetto a quei pochi che sapevano come stavano in realtà le cose, il resto del mondo gli sarebbe andato dietro fiducioso. Internet ha moltiplicato il fenomeno in modo esponenziale (come dimostra l’inchiesta della magistratura sui Cinquestelle e Beatrice Di Maio), ma la Post-Verità è in realtà entrata in circolazione nel momento stesso in cui la televisione ha messo in onda i dibattiti politici. Basta che uno dei contendenti dica una qualunque enormità impossibile da controllare all’istante e che con quella spiazzi l’avversario, per assicurarsi un vantaggio impossibile da recuperare. Per smontare la balla ci vorranno giorni, pochi di quelli che l’hanno creduta saranno informati della smentita, eccetera. È vero inoltre che la Post-Verità è intanto diventata una tecnica raffinata, che si può applicare freddamente a tavolino, una truffa in qualche modo scientifica, come si capisce dalla storia di Beatrice Di Maio.
• E chi è?
Niente a che vedere con il leader Luigi Di Maio. Però è una grillina scatenata, forse un nome d’arte, una tizia che applica con micidiale precisione la tecnica della post-verità (ormai scriviamolo minuscolo). Il blog di Beppe Grillo, dài e dài, ha preso le distanze: «È una persona che scrive su Twitter. E se scrive qualcosa di diffamatorio ne risponderà davanti alla legge». La stessa Beatrice, di fronte alle accuse, s’è appellata al «diritto di satira» e s’è difesa così: ««Sono una libera pensatrice. Non sono collegata a nessuno». Solo che i suoi tweet, come ha spiegato Iacopo Jacoboni sulla Stampa, sono di questo tono: «“Per alcuni il silenzio è d’oro... quello di Mattarella è d’oro nero!”. E sotto, una foto del Quirinale con il tricolore e la bandiera della Total. Inutile sottolineare l’accostamento ingiurioso, Mattarella non è stato mai lambito dall’inchiesta lucana. Beatrice twitta “il governo trema. Da Potenza agli aeroporti inchiesta da paura. Renzi: ’Io non mi fermo?’” e sotto, una foto di Charlot che scappa all’impazzata. Ma Renzi non è mai stato indagato in Basilicata nell’inchiesta su Temparossa» e via diffamando, in un modo che ai giornali costerebbe molto caro e nel mondo di Twitter e di Facebook non ha invece conseguenze, almeno fino ad ora. Adesso il sottosegretario Lotti ha denunciato e i carabinieri di Firenze stanno indagando.
• Quanti follower ha questa blogger?
Poco più di 13 mila. Ma studiando il modo con cui questi follower sono disposti sul territorio di internet, si capisce che molti di loro sono in realtà degli hub, cioè degli snodi, che girano le diffamazioni di Beatrice verso altre bolle della rete e le fanno diventare virali. La mappa di queste connessioni è stata studiata ed è certo che la griglia costruita per una battaglia evidentemente politica (altro che satira) è stata studiata a tavolino. Le domande a cui queste evidenze ci costringono sono tremende. È ancora possibile una rete priva di controlli e di divieti? Non sarà letale la connessione tra il suffragio universale, così come lo conosciamo, e mezzi di comunicazione di massa tanto potenti e ingannatori?