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 2016  novembre 17 Giovedì calendario

«L’ultimo Grande americano». Il genio di Muhammad Ali raccontato da Gay Talese

NEW YORK «Molti in questa stanza, io per primo, mai avrebbero immaginato che Donald Trump potesse vincere…». Per qualche secondo Gay Talese, da consumato pokerista, tace. Il pubblico che ha davanti aspetta con il fiato sospeso, il famoso scrittore (e giornalista) a New York è un’icona del mondo intellettuale, le sue (molte) provocazioni e la sua scorrettezza politica dividono e fanno sempre discutere. Aveva lasciato correre le voci su un suo possibile voto a The Donald («lo infangano in modo indegno», disse tempo fa), agli amici più stretti aveva confidato la sua ammirazione per Bernie Sanders, l’unica certezza era che non avrebbe votato Hillary.
Per l’ultimo appuntamento 2016 delle “Conversazioni New York “(curate da Antonio Monda e Davide Azzolini) nella grande sala della New York Historical Society di fronte a Central Park c’è il pubblico delle grandi occasioni. L’argomento dell’intervista (Cassius Clay/Muhammad Ali, di cui lo scrittore di Onora il Padre era grande amico) è un po’ fuori dai canoni della Society («non so quanti di voi apprezzino la boxe, soprattutto voi donne, che qui siete oltre la metà») ma la platea è attenta ad ogni sillaba. «Non voglio certo fare un paragone tra il presidente eletto e Clay – Ali se preferite, io l’ho conosciuto quando si chiamava Cassius – ma i due hanno qualcosa in comune. Sono dei grandi combattenti, sono degli straordinari winning character, hanno la sicumera di chi si sente pronto a sfidare il mondo intero. Ali aveva una boccaccia, insultava gli avversari prima e durante il match, li derideva, li trattava male e li provocava. Donald Trump ha avuto un po’ lo stesso atteggiamento, ha combattuto contro tutto e tutti. E ha vinto». Sullo schermo sfilano le clip dei grandi combattimenti «del più grande nella storia della boxe»: dal primo contro Sonny Liston a una delle sfide contro Frazier (il “combattimento del secolo” a Manila), dalla “notte da re” contro Foreman a Kinshasa alla “danza sul ring” contro Cleveland Williams («guardate se non sembra un ballerino, guardate come muove le gambe un colosso come lui»).
Talese commenta, ricorda la lunga amicizia, guarda con nostalgia le foto che vengono proiettate tra una domanda e l’altra. Foto storiche («prima che pugile è stato un grande personaggio della Storia americana»), quella con Malcom X («non credo sia stato plagiato da lui»), l’altra che immortala l’incontro del 1996 con Fidel Castro. «Il settimanale The Nation mi chiese di seguirlo, è stata una grande esperienza, anche se Ali non parlava più». Da una parte il grande nemico degli Usa, l’uomo che è sopravvissuto a undici presidenti americani («e sopravvive ancora oggi»), dall’altra l’uomo che ha sfidato le istituzioni americane, che ha rifiutato di combattere per il proprio paese, «una decisione di un coraggio straordinario, pensate solo a quanti milioni di dollari ha perso per tenere fede ai suoi principi, tre anni e passa senza combattere nel pieno della maturità atletica».
Si parla di Muhammad Ali e non si può non parlare dei problemi razziali. Gay Talese si commuove quando legge il bel brano di Toni Morrison ( Mourning for Whiteness, pubblicato sull’ultimo numero del New Yorker), che affronta direttamente il tema. Chi come lui ha seguito «negli anni Sessanta tutte le grandi battaglie per i diritti civili», non può non essere preoccupato. «Ora che entro nel mio status di cittadino ultra- senior (Talese ha 84 anni) posso dirvi solo che ho un grande, grande senso di sconforto».