la Repubblica, 17 novembre 2016
I 1000 giorni di Renzi
Mille giorni vissuti pericolosamente. Sempre sul filo, senza rete. A Matteo Renzi piace disegnarsi come un trapezista. «Mi gioco l’osso del collo», è la sua immagine preferita. Due anni e mezzo di governo bruciati nel segno della velocità e della visibilità. E il 4 dicembre che si avvicina, il giorno del giudizio degli italiani, che diranno se, secondo loro, Renzi è davvero uno che fa le cose o uno che racconta che fa le cose. Un leader del fare o un leader del raccontare: realtà contro storytelling, riforme contro promesse. Se è il politico «giovane, bello, carismatico, innovatore» elogiato da Obama sul prato della Casa Bianca il 18 ottobre o se assomiglia al suo aereo, il contestato Air Force Renzi, jumbo vistoso e in grado di attraversare gli oceani senza scalo che però, un anno e mezzo dopo il salatissimo leasing, non vola, bloccato a terra da misteriosi problemi (a proposito, i veri motivi dello stop sono il ritardo nell’allestimento della camera da letto presidenziale e la pista troppo corta, per un bestione simile, dell’aeroporto di Firenze).
I mille giorni sono una strana unità di misura. Una cifra tonda, certo, che è legata soprattutto al titolo del famoso libro di Arthur Schlensiger Jr sull’esperienza, interrotta tragicamente, di John Fitzgerald Kennedy. L’inizio dell’avventura renziana al governo ha molto in comune con quella presidenza: l’età (JFK diventa presidente a 43 anni, Renzi a 39), la nuova frontiera, mitologico slogan di rottura, e la fiducia, asso nella manica che porta il Pd di Renzi al 41 per cento delle Europee. Cosa è rimasto, dopo questo tempo, di quelle armi vincenti?
Oscar Farinetti, padrone di Eataly, interprete genuino della rottamazione, ha messo in guardia i renziani dal palco della Leopolda, dieci giorni fa: «Dobbiamo tornare a essere simpatici. Dobbiamo chiedere umilmente fiducia perché è il motore che fa girare tutto». Dario Franceschini, politico navigato, oggi alleato del premier domani chissà, offre invece la chiave del successo di Renzi: «Non esiste, in Italia, un altro come lui. Jobs Act: uno di noi si sarebbe fermato davanti al veto dei sindacati, lui no. Matrimoni gay: un altro avrebbe piegato la testa per non scontentare la Chiesa, lui no. E potrei continuare». Come dire: il leader c’è, non rompe solo le regole dell’immagine, ma anche quelle che tengono l’Italia inchiodata ai suoi vizi da 20 anni.
Tutto comincia con l’ingresso a Palazzo Chigi a bordo di una Smart, guidata dal deputato Pd Ernesto Carbone. «La mia scorta è la gente», dice Renzi per significare il cambiamento. È il 22 febbraio 2014, diventa presidente del Consiglio. Ha fatto tutto alla velocità della luce. L’8 dicembre conquista la segreteria del Partito democratico, a gennaio stringe il patto del Nazareno con Berlusconi per riformare la Costituzione e la legge elettorale, a febbraio scrive su Twitter a Letta “Enricostaisereno”, qualche giorno dopo gli soffia il posto e sempre su Twitter, dallo studio di Napolitano dove presenta la lista dei ministri, scherza rivolto ai giornalisti in attesa: «Arrivo, arrivo…». Leader futurista, un baleno che esce dal quadro. Forma un esecutivo composta per metà da donne (ma adesso tre hanno lasciato e sono state sostituite da uomini); vive l’emozione delle prime slide a Palazzo Chigi; promette, spericolato, una riforma al mese mostrando il calendario e 1000 asili nido in mille giorni. Vara il bonus degli 80 euro e sull’onda di una vera luna di miele col Paese a maggio prende il 40,8 per cento alle elezioni europee.
Molte riforme le porta in banchina. Il nuovo mercato del lavoro, senza articolo 18, crea 655 mila posti lavoro (fonte Istat). Fa approvare l’Italicum, combatte e incassa la riforma costituzionale che ora viene sottoposta a referendum. Entro dicembre inaugura la Salerno- Reggio Calabria senza cantieri, ma perde la scommessa con Vespa sui rimborsi dei debi- ti della pubblica amministrazione. Assume Diego Piacentini, vicepresidente di Amazon, per l’agenda digitale. Sulle coppie gay compie un piccolo miracolo. Rompe, ricuce, mette la fiducia, toglie la stepchild adoption e alla fine l’Italia ha i matrimoni gay, ribattezzati unioni civili solo a uso burocratico. Abbassa Ires, Irap, toglie l’Imu, ma non realizza la riforma complessiva del fisco più volte annunciata. Il nuovo assetto della giustizia è fermo in Parlamento, ormai da mesi. L’economia cresce molto poco, però torna un timido segno più. Litiga con l’Unione europea e non solo durante questa campagna referendaria. Chiede la fine dell’austerità e un impegno comune sui migranti. Lotta, protesta, attacca. E intanto l’Italia continua a salvare vite umane nel Mediterraneo. Con orgoglio. Da agosto è chiamato ad affrontare il terremoto di Marche, Lazio e Umbria. Lo fa senza proclami, affidandosi ai sindaci e alla Protezione civile, ma non rinuncia allo slogan di Casa Italia.
Per paradosso, uno dei grandi successi del suo esecutivo viene ottenuto seguendo la linea della prudenza anziché quella dell’arrembaggio. Nell’Europa minacciata dal terrorismo, all’indomani della strage del Bataclan, il premier dosa le parole, non dichiara guerra a nessuno, semmai precisa: «Dobbiamo spendere un euro per la sicurezza e un euro per la cultura». Nel nostro Paese non ci sono attentati. E quando Renzi reclama un ruolo guida per l’Itala in Libia, in realtà sottotraccia fa finta di niente. Per cui invece dei 5000 militari chiesti dagli Usa, ne mandiamo un centinaio a difendere il fragile governo di Tripoli. Una scelta che finora si è rivelata saggia.
Il 5 marzo 2014, quasi mille giorni fa, una scolaresca di Siracusa lo accoglie cantando una canzoncina. S’intitola “Clap and Jump per Renzi”: «Facciamo un salto/battiam le mani/Ti salutiamo tutti insieme/Presidente Renzi… Dei nostri sogni/delle speranze che ti affidiamo con fiducia oggi a ritmo di blues». Apoteosi dell’imbarazzo e della popolarità allo stesso tempo. Oggi il premier ammette, come Farinetti, di non essere simpatico, di avere una fetta del Paese contro. «Meglio arroganti che simpatici senza combinare nulla», dichiarava surfando sull’onda del 41 per cento. Ha smesso di dirlo, forse di pensarlo.
Confessa anche qualche errore: la Buona scuola credeva fosse una pagina radiosa invece ha provocato solo guai e voti perduti. La Rai del suo amico Campo Dall’Orto doveva rappresentare una svolta, al contrario annaspa tra flop e critiche. Deve tenere insieme il potere e la forza della novità, della rottura. Qualcuno fa notare che non rischia più l’osso del collo se sotto ha una rete di protezione bella fitta: Sergio Marchionne, la Confindustria, i grandi banchieri. Succede, quando si governa da oltre due anni e mezzo. «È l’unico leader», sentenzia Silvio Berlusconi che di uomini se ne intende. Se sarà in grado di volare, lo sapremo il 4 dicembre.Goffredo De Marchis
Il tentativo incompiuto di rubare consensi a destra
MILLE GIORNI FA, nel suo doppio ruolo di neopresidente del Consiglio e segretario del Pd, Matteo Renzi si era dato tre obiettivi. Primo, trasformare il suo partito obbligando la sinistra classica a rinnovarsi o perire e al tempo stesso spezzare il potere di veto delle forze sindacali, Cgil in testa. Secondo, svuotare e ridimensionare il movimento di Beppe Grillo, che all’inizio del 2014, quando il premier s’installò a Palazzo Chigi, era fresco del grande successo conseguito a sorpresa nelle elezioni dell’anno prima. Terzo, conquistare di slancio, una parte del voto di centrodestra stanco di Berlusconi, isolando la Lega populista di Salvini. Era, in nuce, l’idea del “partito della nazione”, egemone nella nuova stagione politica come un tempo – con le debite differenze – la Dc.
Mille giorni dopo, questi obiettivi sono stati centrati solo in modo parziale. Renzi è riuscito a ridurre l’incidenza dei sindacati, il cui peso nel dibattito pubblico non si può oggi nemmeno paragonare a quello degli anni Settanta e Ottanta. Nel Pd ha ingaggiato un estenuante braccio di ferro con la sinistra interna dei D’Alema e dei Bersani, costringendola a posizioni di minoranza “conservatrice” che permettono al leader (e segretario del partito) di rappresentarla come una sorta di nemico interno da sconfiggere. Una battaglia utile soprattutto a Renzi per tener viva la sua immagine di innovatore. Il secondo traguardo – il ridimensionamento del M5S si è realizzato solo nelle elezioni europee del ‘14. Quel 41 per cento, che rappresenta il miglior risultato del Pd renziano, coincise con una seria battuta d’arresto per Grillo e i suoi. Da allora però molta acqua è passata sotto i ponti e oggi i Cinque Stelle appaiono in ottima salute nonostante i dissidi interni, le contraddizioni di Grillo e la mediocre amministrazione della capitale d’Italia. È un esito che Renzi non aveva calcolato, tanto è vero che l’Italcum – ora in via di correzione – non prendeva nemmeno in considerazione l’ipotesi di una vittoria elettorale dei grillini.
Terzo punto, lo sfondamento a destra. Renzi si sente una specie di Tony Blair italiano, ma il travaso di voti dal centrodestra a un Pd cambiato al punto d’esser quasi il partito personale del premier non si è ancora realizzato. La destra è confusa e lacerata, eppure i voti di Berlusconi fin qui non sono stati ereditati, se non in piccola percentuale, dal nuovo Blair. Anche per questo Renzi guarda al referendum come a una centrifuga in grado di mescolare i vecchi elettorati, aprendo la via a una nuova egemonia politica.Stefano Folli
Narrazione con troppi ricchi e pochi esclusi
ALLA LEOPOLDA ci sono troppi ricchi. Mi scuso per la rozzezza, francamente deplorevole, di questo incipit, tra l’altro dettato dal colpo d’occhio, non certo da un censimento ragionato dei partecipanti. Niente di personale, tra l’altro, contro i ricchi (non so chi diceva che i ricchi sono solo dei poveri che non sanno di esserlo). Il problema è che quel punto, e proprio quello, minaccia di essere la tomba del renzismo, con tutti i suoi difetti – ne dico uno, la spocchia – e tutti i suoi pregi – ne dico uno, il coraggio, e ne dico un altro: il rifiuto di vivere di ricordi, come le sinistre di mezzo mondo si sono rassegnate a fare. Lo spirito della rottamazione (nel senso migliore del termine: cambiamento radicale di paradigma) rimane sulla carta, o peggio ancora relegato al campo asfittico del regolamento di conti interno, fino a che non assume una sua evidenza socio-economica. Qualsiasi sinistra, dalla più radicale alla più tiepida, dalla più settaria alla più consociativa, è comunque costretta a partire dalla morte del lavoro, dalla finanziarizzazione del capitale (un pugile che è scappato dal ring, ma prima si è fregato l’incasso), dal fatto, per dirla in due parole, che un piccolo artigiano o un piccolo imprenditore italiano paga, in percentuale, molte più tasse di Facebook (a meno di evaderle). Andando a ingrossare le fila degli scontenti e degli impoveriti, i precari, i pensionati di basso livello, i salariati malpagati, i ragazzi senza futuro.
Questo genere di “narrazione”, che avrebbe bisogno di un nuovo Steinbeck e di un nuovo Furore, da troppi anni scorre nell’alveo detto del “populismo”. Eppure è tipicamente, se pure in forme nuove, lotta di classe. Parla di un tremendo processo di esclusione sociale, di nuovi ultimi e di nuove vittime. È uno scenario inevitabilmente depresso, del quale il Pd fatica enormemente a farsi carico: lo spirito renziano è programmaticamente ottimista, ripudia la lamentela come metodo, la lagna come vizio da assistiti cronici, denuncia come il “malessere percepito” sia alle volte superiore a quello reale, invita a rimboccarsi le maniche e darsi da fare. Ma un ottimista costretto a recitare su un palcoscenico incupito dalla crisi e segnato dalle cattive notizie non può che sembrare, in tempi brevi, incongruo. È per questo che le camicie candide e gli iPad della Leopolda rischiano, anche al di là delle intenzioni, di cristallizzare l’immagine renziana attorno allo stereotipo di una “modernità” assediata, precocemente invecchiata.
Michele Serra
Lavoro e mance la strategia di un Giano bifronte
COME un moderno Giano bifronte, Matteo Renzi ha guardato in direzioni opposte nel formulare la sua politica economica.
Con lo sguardo rivolto in avanti, il premier ha riformato il mercato del lavoro, introducendo un nuovo contratto a tutele crescenti che rende meno rischioso per le aziende assumere personale a tempo indeterminato. Questa riforma e la decontribuzione che l’ha accompagnata hanno aiutato a far ripartire l’occupazione. A mancare, però, è stato un taglio strutturale del cuneo fiscale per le imprese, che rischia di trasformare questo primo miglioramento in un fuoco di paglia.
La politica di Renzi sulle banche è stata, invece, incerta su dove guardare. La trasformazione delle popolari in società per azioni è stata una riforma epocale che sta già favorendo il consolidamento del settore. Per aiutare gli istituti a smaltire la montagna di crediti deteriorati che grava sui loro bilanci, il governo ha adottato provvedimenti utili, volti ad agevolare il recupero delle garanzie. Tuttavia, non si è trattato di interventi decisivi: la crisi del Monte dei Paschi di Siena resta acuta e qualsiasi soluzione è congelata in attesa del referendum costituzionale. Il destino di Veneto Banca, Banca Popolare di Vicenza e delle quattro banche salvate un anno fa è altresì incerto. Renzi ha fatto di tutto per evitare il bail in, ma ha lasciato che banche sane e Cassa Depositi e Prestiti si accollassero un conto che è sempre più salato.
La seconda faccia di Renzi, quella rivolta all’indietro, è apparsa soprattutto nell’ultimo anno. La legge di bilancio per il 2017 contiene interventi positivi per rilanciare gli investimenti. Tuttavia il premier ha buttato miliardi in mance elettorali, dal taglio delle tasse sulla prima casa ai sussidi a pensionati e pensionandi, rallentando il risanamento dei conti senza produrre effetti significativi sulla crescita. Gli “80 euro” hanno stimolato un po’ i consumi, ma sarebbero stati meglio spesi per aiutare la competitività del Paese.
Le due facce di Renzi si ritrovano anche nel rapporto con l’UE. Dopo un inizio decisamente filo-europeo, il premier ha provato a catturare il consenso degli elettori di centro-destra con attacchi continui e spesso immeritati verso Bruxelles. La speranza del premier, come nel caso delle misure economiche dal sapore elettoralistico, è guadagnare voti in vista del referendum di dicembre. Il rischio, però, è che tra il populismo e l’anti-europeismo sincero degli altri partiti e la conversione abbozzata e tardiva del premier, gli elettori decidano alla fine di scegliere l’originale.
Ferdinando Giugliano