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 2016  novembre 16 Mercoledì calendario

I segnali contrastanti delle scelte di Donald

Le prime mosse di Donald Trump non hanno sciolto i nodi sulla sua prossima amministrazione. E sarebbe stato probabilmente eccessivo sperare che lo facessero. Il passo tra le promesse elettorali e la realtà oltre le urne è sempre lungo – e per Trump potrebbe rivelarsi più lungo del solito. Far convivere l’arte del possibile, la politica del pragmatismo, con quella dell’impossibile, il populismo estremo sfoderato in mesi di brutale campagna elettorale, è e rimarrà la grande sfida di Trump. Una sfida che farà bene ad affrontare dimostrando un rispetto profondo, non solo formale, per quanto ha da insegnargli soprattutto un “nemico”, Barack Obama. Tra le iniziali scelte di Trump è spuntata la nomina del giovane politico di carriera, Reince Priebus, come chief of staff. Ma anche nei panni di grande stratega quella di Steve Bannon, che se vanta un master in sicurezza nazionale a Georgetown University e un secondo in business a Harvard è salito alla ribalta capitanando il Breitbart News Network. Il portabandiera, cioè, dell’Alt Right, di una destra che ha pericolosamente trafficato – non solo ma non poco – in razzismo, suprematismo bianco, antisemitismo e misoginia. 
Le nomine chiave e le prese di posizione si susseguiranno e, probabilmente, cercheranno di calibrare a fatica la domanda di cambiamento e la necessità di dar prova di responsabilità. Ma l’assist migliore, per procedere lungo questo percorso accidentato, non gli arriverà da Bannon, Priebus o da altri stretti collaboratori. Gli arriverà da un protagonista all’apparenza improbabile. Il presidente uscente Obama non ha fatto mistero della sua opinione dei toni estremisti della campagna di Trump. Ha visto la propria promessa di cambiamento come agli antipodi. Gli sta però ora mostrando una indispensabile rotta, politica e morale. Non suggerimenti sui candidati, piuttosto sulla condotta e gli atteggiamenti che segneranno il futuro. Potrebbe anzi diventare questa, a sorpresa quanto è stata la vittoria di Trump alle urne, una delle legacy di Obama: l’efficace passaggio di poteri ad un outsider impreparato a unire un Paese spaccato come a riempire un’amministrazione di personale e contenuti. Tanto ha anticipato il presidente uscente con le sue parole degli ultimi giorni: ha fatto sapere che si impegnerà più di qualunque predecessore per assicurare la transizione. E ha però raccomandato a Trump di rivolgersi ad americani confusi e divisi e ad un mondo altrettanto confuso e diviso – teatro questa settimana del suo ultimo viaggio tra Grecia, Germania e Perù – rifuggendo da retorica infiammatoria dentro o fuori i confini. Lo sta, di fatto, consigliando su come davvero diventare il Presidente di tutti gli americani e un leader internazionale. Trump deve la sua elezione all’abilità nell’esprimere il disagio nell’era della crisi dei ceti medi e dell’ordine globale meglio dei democratici. Potrebbe tuttavia dover ringraziare Obama – l’uomo, il politico e il presidente cui aveva cercato di negare legittimità e persino cittadinanza – per una grande e accelerata lezione di governo. Per una chance, se saprà coglierla, a diventare leader.