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 2016  novembre 15 Martedì calendario

In Italia è scomparsa la vergogna

Con La repubblica dei brocchi, appena uscito per Feltrinelli, Sergio Rizzo, grande firma del Corriere della Sera, prosegue il lavoro quasi decennale di denuncia dell’Italia della furbizia, della mediocrità e della corruttela. Quasi decennale nel senso che nel 2007 scrisse, con Gian Antonio Stella, La Casta (Rizzoli), che non trattava di bramini e paria indiani ma dei politici italiani e dei loro privilegi, a volte del loro malaffare.Stavolta il racconto, per 272 pagine, conduce il lettore alla scoperta delle inadeguatezze della classe dirigente italiana: politici, magistrati, professionisti, professori universitari, dirigenti dello Stato ma anche manager del privato. Rizzo, classe 1956, nato a Ivrea ma lucano di Dna, giornalista economico di lungo corso - fu anche a Milano Finanza - oggi dirige il dorso romano del Corriere.
Domanda. Rizzo, a leggere questo suo nuovo pamphlet, si ha l’impressione di trovarsi di fronte alla riedizione del suo primo lavoro con Stella, solo che il titolo adeguato, oggi, potrebbe essere Le Caste, al plurale.
Risposta. No, quella casta era una cosa precisa. Sarei contrario a usarla in modo generico, si rischia una semplificazione eccessiva.
D. Allora chi sono i protagonisti di questo suo libro?
R. Hanno ognuno caratteristiche diverse e il tema di cui si parla attraversa tutta la società, senza rispetto di nessuna categoria. Ha a che fare con delle mutazioni sociologiche anche profonde.
D. Ossia?
R. Parlo del senso di responsabilità, ormai perso del tutto.
D. Perché?
R. L’abbiamo perso perché abbiamo cominciato a mettere troppo roba in mezzo, troppi passaggi, fra la testa e la coda di un sistema e, inevitabilmente, quando la filiera si allunga, il rimando diventa la regola. Nessuno se la prende, la responsabilità, e si distribuisce dentro la filiera. Alla fine la responsabilità non è di nessuno. Ci sono casi classici.
D. Del tipo?
R. Pensi ai trasporti. Il Comune non riesce a farli funzionare, tipicamente perché mancano i finanziamenti, che gli devono arrivare dalla Provincia, la quale li attende dalla Regione, che dice: i trasferimenti li fa lo Stato centrale, il quale ricorda che l’Europa impone un tetto al deficit. Ecco fatto. Ma, oltre alla sparizione della responsabilità, c’è un’altra concausa di quello che è sotto i nostri occhi: la fine della vergogna.
D. Lei apre il libro con questa riflessione: non ci vergogniamo più, dice, e cita molti a sostegno della sua tesi, da Papa Francesco a Piercamillo Davigo.
R. La fine della vergogna è una delle principali cause del degrado che viviamo, perché questo sentimento era l’estremo baluardo del senso di responsabilità: la sanzione sociale a una cosa sbagliata. La vergogna era la più potente delle sensazioni. Prenda quel ministro tedesco che s’è dimesso per aver copiato la tesi di dottorato.
D. Si chiamava Karl-Theodor Zu Guttenberg, ministro della Difesa.
R. Sì, e si dimise perché, dopo quella scoperta, non poteva guardare in faccia i colleghi. Faceva il ministro e non si sa più neppure dove sia finito. Ma per tornare all’Italia, nella nostra classe dirigente, s’è fatta strada l’idea di una sostanziale impunità e la vergogna, di conseguenza, non c’è più, non corrisponde a più a una sanzione sociale.
D. Infatti lei, in quel capitolo, colleziona le citazioni di molti protagonisti di vari scandali, che si dichiarano assolutamente sereni. Un tripudio di «sono sereno».
R. Il punto è questo: se non c’è più nemmeno la sanzione penale, anche la vergogna svanisce. La sanzione penale evapora con la prescrizione: non si sa più se uno è colpevole o innocente, non arrivi al terzo grado.
D. Ma alla prescrizione si può anche rinunciare, quando si è imputati.
R. Sì, ma prenda la vicenda di Antonio Scajola.
D.Che, in primo grado, fu assolto per la casa con vista Colosseo acquistata «all’insaputa».
R. E in appello fu prescritto, rinunciò cioè a rinunciare alla prescrizione, diciamo. Quindi, può giustamente dire di non essere mai stato condannato. La prescrizione è infatti una cosa meravigliosa, un sistema codificato: siamo l’unico paese al mondo in cui i termini per la prescrizione scattano dal momento in cui il reato è stato commesso e non da quando è stato scoperto.
D. Bisognerebbe spostare su questo secondo momento la decorrenza del termine, secondo lei?
R. Certo, come sono del parere che, alcuni reati, debbano essere imperscrittibili, come lo è l’omicidio. E perché non anche la corruzione, i cui effetti devastanti sono sotto gli occhi di tutti?
D. Perché, secondo lei, in Italia abbiamo questo tipo di prescrizione?
R. È il segno di un autentico degrado della classe dirigente, specialmente di quella che fa le leggi, ossia i politici. Non hanno mai fatto una norma con una prescrizione diversa perché, sennò, colpirebbe loro stessi. Ma vorrei tornare al caso Scajola.
D. Lei, nel libro, lo descrive per filo e per segno. Ma dal lato giudiziario è chiaro: l’ex-ministro è stato assolto in primo grado e prescritto in appello.
R. Sì ma è una vicenda emblematica, dalla quale si capiscono molte cose. A me una casa non l’hanno mai regalata, non mi è mai capitato.
D. Neppure a me.
R. Eppure lì abbiamo una confessione, quella di un architetto, che portava assegni circolari per conto di un imprenditore, e un politico che si faceva omaggiare, ma che era fuori dalla stanza nel momento in cui i danari venivano versati e per questo un giudice lo ha assolto: non c’è la prova che sapesse.
D. Lei mi vuol dire che la verità giudiziaria può anche divergere dalla verità morale?
R. Certo che sì. E funziona peggio o meglio? Funziona peggio, siamo seri. Peraltro Scajola si è dimesso da ministro per aver detto che una vittima dalle Brigate Rosse era «un gran rompicoglioni».
D. Il povero Marco Biagi.
R. Da quella volta, Scajola ha rifatto il ministro per ben due volte. Ora, senza voler infierire, ma in Francia e in Germania sarebbe successo? Non credo. Guttemberg era un astro nascente della Cdu ed è sparito. E per molto meno, per una tesi copiata, non perché gli abbiano regalato una casa.
D. Lei racconta come la nostra classe dirigente sia mediamente peggiorata. Perché, prima era migliore? Siamo di nuovo al «si stava meglio quando si stava peggio»?
R. Non che prima brillassimo, mi ricordo il meraviglioso Paté d’animo, libro di Guido Quaranta.
D. Compianto cronista parlamentare di L’Espresso.
R. «Patè d’animo» fu appunto lo sfondone pronunciato da un politico intervenuto in aula. Una delle tante smarronate raccolte in tanti anni di lavoro, fra la tribuna, la sala stampa e il Transatlantico. E del resto anche, Mario Scelba, che fu pure presidente del Consiglio, quando incontrò il suo omologo francese, Pierre Mendes France, rispose al saluto con un «piacere, Mario Scelba, Italia». Però...
D. Però?
R. Però, anche se sono del parere che la classe politica rappresenti il Paese - li votiamo, e sono un po’ il nostro specchio - resto anche convinto che, essendo appunto classe dirigente, un po’ meglio di noi lo debbano essere davvero. Non può andar bene che un ministro dell’Istruzione, Francesco D’Onofrio, sbagliasse il congiuntivo, «vorrei che ne parliamo», disse una volta, o che un altro, Mariastella Gelmini, pensasse che fra il Cern di Ginevra e l’Istituto del Gran Sasso fosse stato costruito un tunnel.
D. Attraverso il quale far passare i neutrini...
R. ...o che si sia sentito in un consiglio regionale, quello del Lazio, un consigliere dichiarare d’essere «breve e circonciso».
D. Lapsus freudiani...
R. Macché, Francesco Storace, presidente di turno dell’aula, lo corresse e l’altro, Antonello Aurigemma, ribadì deciso: «No, circonciso».
D. Bissato esattamente dal giovane brianzolo grillino, Davide Tripiedi, deputato. Lei dedica un intero capitolo a questo florilegio poco commendevole di vari politici.
R. Non è un esercizio di scherno, mi creda. È grave che Aurigemma scrivesse in un emendamento «un’unità» senza l’apostrofo e scambiasse il budget col badge. Aurigemma era stato in precedenza assessore ai Trasporti nella giunta di Gianni Alemmano a Roma: a lui faceva capo l’Atac, coi suoi 12mila dipendenti e coi problemi che ormai tutti conosciamo.
D. Sì ma torniamo alle cause, Rizzo.
R. L’analisi più corretta l’ha fatta il professor Antonio Merlo, che insegna all’Università della Pennsylvania, quando parla di «mediocrazia», spiegando che se classi dirigente procedono per cooptazioni, il livello scende inesorabilmente.
D. Lei parla anche di management privato e – complimenti – di Rizzoli, l’editore del suo giornale, citando il caso di Pietro Scott Jovane, ex-amministratore delegato.
R. È un caso singolare, di «buona entrata», ossia un premio perché qualcuno assume un incarico, dato nel pieno di una crisi societaria. Credevo esistesse solo la «buona uscita». Ma ben più emblematico, fu quello di Elio Catania, che usciva con un bilancio disastroso da Trenitalia e veniva chiamato ai vertici dell’azienda tranviaria milanese, l’Atm. Aveva alle spalle un buco e gli fu dato un nuovo incarico? Anche lui aveva avuto la buona entrata a Trenitalia.
D. Il nuovo incarico glielo dette Letizia Moratti, per la precisione.
R. Ma, appunto! Se financo nei sistemi migliori, e Milano è un’eccellenza, succede che si prenda il brocco...
D. Siamo al titolo del libro. Come mai i cavalli vincenti, per stare al paragone ippico, fanno così fatica ad affermarsi?
R. Ma perché i brocchi sono alleati fra loro, fanno sistema, perché se il cavallo buono passa, dopo, la loro broccaggine viene messa in discussione. Le faccio un esempio politico.
D. Prego.
R. Stefano Parisi è un buon cavallo che vorrebbe dare un senso al centrodestra, dopo vent’anni. E i brocchi si sono ribellati dal primo minuto, scatenati. Sanno benissimo, che potrebbero finire in una fossa comune, cosparsi di calce viva. E del cavallo di razza si vogliono liberare, i ronzini, per riprendere il loro trotto malandato.
D. Rizzo, oltre all’analisi dei mali, ci vuole un’idea per uscirne. Da dove ripartire?
R. Si riparte mettendo nel sistema alcuni talenti. Il che vuol dire fare nomine serie negli enti pubblici.
D. Non i politici trombati di cui anche lei parla nel libro.
R. Esatto. Significa fare bandi pubblici a livello internazionale, con commissioni indipendenti. Non come in università.
D. A cui dedica un capitolo, fra i tanti ambiti toccati. Parla anche di magistratura ma usando una mano meno pesante.
R. Ma no, anzi, riguarda le toghe la storia che mi ha più sorpreso.
D. E qual è?
R. Quella del farmacista dell’Isola del Giglio che, nel 1976, con altri isolani, cercò di opporsi al soggiorno obbligato di Freda e Ventura, gli accusati della strage di Piazza Fontana, da poco liberati. Si misero con delle barchette davanti al porticciolo, impedendo l’attracco del traghetto che li trasportava. E si presero cinque mesi e dieci giorni per «blocco navale», gli unici ad aver pagato per la strage milanese.
D. E la magistratura che c’entra? 
R. Questa vicenda è il paradigma dello stato in cui versa: incapace, in 45 anni, di colpire gli autori e gli ispiratori di una strage che ha inaugurato una stagione di sangue, avvolgendo apparati repubblicani in una cupa nebbia di misteri, ma irremovibile nel perseguire una dimostrazione non violenta.