Libero, 15 novembre 2016
L’impero del porno: in un papiro vietato ai minori i vantaggi di farsi sodomizzare
Antichi esempi di atti di libidine riemergono dalle sabbie dell’Egitto. A ricordarci come la sessualità degli antichi fosse priva di tabù e in alcuni casi estrema è un breve testo conservato su un papiro, trovato a Ossirinco (250 km a sud del Cairo, non distante dal Nilo), pubblicato nel volume 42 (n. 3070) dei Papiri di Ossirinco e ampiamente commentato da Brice C. Jones (Università di Oxford) nel suo blog.
Si tratta di una lettera privata, redatta in greco e databile al I secolo d.C., quando l’Egitto era una provincia dell’Impero romano; e quando quindi gli usi e i costumi dei Romani, ormai totalmente disinibiti (siamo verosimilmente durante il principato di Nerone, imperatore che fu paradigma di efferatezza e di depravazione), si estesero a popolazioni in precedenza meno corrotte. Il contenuto è decisamente vietato ai minori: «Apione ed Epimaco così avvertono il
loro amatissimo Epafro-
dito: “Se ci consenti di so-
domizzarti, ne trarrai
grossi vantaggi! Per pri-
ma cosa infatti, se ti fai sodomizzare, cessere-
mo di picchiarti... Ti au-
guriamo ogni bene!”».
Un linguaggio crudo,
diretto e ovviamente of-
fensivo per esprimere il
primo e unico esempio
a noi noto della richiesta
(unita a ricatto) di una
pratica erotica comun-
que conosciuta e messa
in atto non così raramen-
te, indifferentemente
con uomini e donne. Un
costume sessuale già
presente nei lazzi lascivi delle commedie di Aristofane (che con linguaggio sboccato apostrofava i potenti dell’Atene del V secolo a.C.), ma sempre alluso tra le righe e ipotizzato dai commenti successivi alle opere del poeta (i cosiddetti scholia); un’abitudine, che appare qua e là in Grecia e che si dilata nella Roma plebea e che ora questo insolito papiro precisa in tutti i suoi contorni drammatici e anche beffardi.
Si può facilmente arguire che Apione ed Epimaco erano due cittadini liberi, verosimilmente di origine greca, come lasciano capire i loro nomi, che vivevano nell’Egitto romano; e che Epafrodito era quasi certamente un loro schiavo. A rivelare particolari imbarazzanti è proprio il nome del malcapitato: «Epafrodito» (in greco: «Favorito da Afrodite», dea dell’amore; e quindi per traslato: di bell’aspetto e propenso al sesso) è il nome ellenico con cui i proprietari lo chiamarono e che sostituì quello originario, sicuramente strano da pronunciarsi, in quanto proprio di un’altra etnia (magari di un popolo sottomesso dai romani, che ne schiavizzarono molti abitanti).
Se i due domini applicarono questo appellativo al loro sottoposto, è perché evidentemente ne apprezzavano la bellezza fisica e la disponibilità all’atto erotico. E, forti di questa convinzione, aggiunsero tracotanza a tracotanza: gli intimarono appunto di farsi sodomizzare, promettendogli in cambio come prima cosa la cessazione delle abituali percosse, riservate quotidianamente dai padroni agli schiavi.
Non paghi di questi eccessi, i due decisero di accompagnare il testo con un disegno inequivocabile di ciò che pretendevano, con tanto di didascalie in greco (lingua d’uso sotto Roma in Egitto e in tutte le province orientali dell’Impero): evidentemente il servo oggetto del loro turpe desiderio conosceva poco e leggeva a stento il greco e un disegno gli avrebbe chiarito l’oscena richiesta.
Un testo, quello di questo papiroporno, che arricchisce le nostre conoscenze in materia di omosessualità all’epoca romana: se da una parte le classi agiate, dal pensiero liberale e dalla vasta cultura, ammettevano la pratica omoerotica senza inibizioni, dall’altra la plebs non era molto tollerante con il mondo gay, che anzi a volte apostrofava con termini scurrili (come mostrano graffiti latini a Pompei). E comunque tutti quanti nell’Urbe caput mundi ritenevano che nell’atto di sodomia la posizione passiva competesse solo a uno schiavo e per nessuna ragione a un libero cittadino. Cosa che il nostro papiro conferma.