Corriere della Sera, 15 novembre 2016
«Sbarre e allarmi, vivo in cassaforte ma non me ne vado. I militari? Inutili». Intervista a Sveva Casati Modignani
Sveva Casati Modignani, classe 1938 e firma fra le più amate della narrativa contemporanea. La sua voce arriva dalla casa milanese dov’è nata e dove ha sempre vissuto.
«Adesso ci vivo con una badante che sta con me giorno e notte. Ho impianti di allarme, videocamere e inferriate a tutte le finestre. Mi sono rinchiusa in una specie di cassaforte. E pensare che un tempo qui non c’erano sbarre e tenevamo le porte aperte giorno e notte...».
Il sindaco Sala ipotizza l’impiego dii militari in via Padova e dintorni. Proprio dalle parti di casa sua.
«Che idea originale...».
Non sembra un complimento.
«Sono anni e anni che qualcuno ogni tanto propone l’arrivo dell’esercito da queste parti. Non ha mai funzionato e non capisco perché dovrebbe funzionare adesso. È una sparata come tutte le altre volte. Un modo per mettersi a posto la coscienza davanti ai cittadini sapendo bene che non serve a nulla e che qui la situazione è esplosiva».
Quindi non vorrebbe un militare sotto casa?
«Ma no. Quei ragazzi stanno agli angoli delle strade mentre il problema è capire in che situazione vive questa gente. Le chiedo: una città civile come Milano può consentire che 10-12 persone vivano in due stanze? Le faccio un esempio. In questo quartiere ci sono tante vecchie case di ringhiera, quelle con i cessi in punta, come dicono i milanesi. Sa che la sera proprio lì, nel cesso, dormono due o tre persone?».
Se dovesse suggerire al sindaco una via d’uscita cosa gli direbbe?
«Di entrare in quelle case, ripulirle e trovare una sistemazione dignitosa per questa gente. La via per la sicurezza di tutti passa dalla dignità di queste persone».
Lei potrebbe permettersi casa e vita nei quartieri del lusso. Perché restare lì?
«Perché questa è casa mia, la mia vita. Perché ci ha vissuto tutta la mia famiglia, ci sono le mie radici. La mia stradina in sé è tranquilla, la mia casa ha il giardino, il cortiletto, tutt’attorno ci sono case piccole. Il fatto è che faccio 50 metri e sono in via Padova. E lì è un altro mondo...».
Un esempio.
«Beh, per sentirsi non sicura basta fare un giro sull’autobus 56, magari di sera. Quando si vedono salire le bande di giovani latinos bisogna preoccuparsi. Io faccio la spesa al supermercato vicino a casa. L’altro giorno una tizia ha scaricato della roba nel mio carrello e mi ha detto: questa la paghi tu. È intervenuta la cassiera e, mentre uscivo, quella urlava di tutto contro di me».
Milano è in ogni suo libro. Lei non si è mai mossa da via Padova. Che cosa le viene in mente se pensa a come tutto è cambiato?
«Una grandissima tristezza. È un dolore vedere questo quartiere e ripensarlo quando era civile, popolato da artigiani, operai, impiegati. Ci viveva la piccola borghesia onesta, il peggio possibile era il “teppa”, il ladruncolo che tutti conoscevano. E invece ora... Sa qual è la malattia di Milano?»
Ne ha una sola?
«No. Ma la più evidente è che abbiamo gli intellettuali d’avanguardia. Questi signori che se la tirano e che di via Padova dicono “è una strada internazionale”. Fanno grattacieli che sono un insulto alla natura, come i famosi giardini verticali. Un tempo scrivevo all’Amministrazione per denunciare, commentare. Non mi hanno mai risposto. Ho smesso di farlo».