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 2016  novembre 14 Lunedì calendario

Bankitalia, ingorgo quote il 48% ancora invenduto a gennaio niente cedole

Milano Alzi la mano chi non vorrebbe essere azionista della Banca d’Italia. Istituzione carica di storia, con una dote patrimoniale di 7,5 miliardi, alcuni dei palazzi più belli del paese dove sono custodite le riserve auree nazionali, e un signor dividendo, stabilito per legge in «non più del 6% annuo». Pure, a quasi tre anni dalla legge di riforma del governo Letta, e a un mese e mezzo dal termine legale perché i grandi proprietari storici (le banche) scendano sotto la soglia del 3%, gran parte delle quote eccedenti restano invendute. Il periodo transitorio sta finendo, e solo il 13% del capitale è stato girato a nuovi investitori. Resta il 48,7% da alienare, principalmente in capo a Intesa Sanpaolo e Unicredit, con spiccioli di Generali e Carige (sono i gruppi che superano il 3% come da tabella). Riusciranno i soci storici a smobilizzare in sei settimane il quadruplo delle quote vendute in tre anni? Risposta ovvia: no, anche se qualche cessione di piccoli pacchetti a dicembre dovrebbe esserci e qualche trattativa è in corso. 
La legge 5/2014, recepita nello statuto Bankitalia, è molto articolata, ma non tassativa a riguardo. Prevede che tutte le quote eccedenti il 3% dall’inizio dell’anno nuovo si vedano congelati i diritti di voto all’assemblea di primavera, e non ricevano più le laute cedole, ammontate a complessivi 380 milioni nel 2013, e a 340 milioni nel 2014 e nel 2015. Ovviamente i venditori non avrebbero interesse a rinunciare a quei rendimenti, che per le azioni in eccesso da gennaio saranno assegnati alle riserve della vigilanza. Così negli ultimi mesi hanno svolto un lavoro esplorativo molto intenso per poter scendere di peso (a doverlo fare sono soprattutto le due maggiori banche nazionali) e incassare miliardi preziosi in questa fase negativa della congiuntura. Tuttavia dietro le quinte si mugugna, perché i compratori che hanno manifestato più interesse – per esempio fondi istituzionali, investitori asiatici, private equity – sono quelli che per legge, e per i placet lasciati alla vigilanza, non hanno il pedigree giusto, avendo passaporto straniero, regolamentazioni differenti e finalità potenzialmente speculative. Via Nazionale finora avrebbe interpretato con grande rigidità lo spirito e la lettera della riforma, così scartando seccamente alcuni dossier. 
Il novero dei partecipanti al capitale era stato scelto con forse eccessiva attenzione e cipiglio dal legislatore, su consiglio della vigilanza stessa: banche, assicurazioni e riassicurazioni, fondazioni bancarie, enti e istituti di previdenza e fondi pensione. Tutti rigorosamente con «sede legale e amministrazione in Italia». Ma i vincoli si sono rivelati talmente stretti che ben pochi compratori si sono affacciati: non perché pensino che avere in portafoglio azioni di Via Nazionale sia un cattivo affare, ma perché in questi due anni i problemi sempre più scoperti del sistema finanziario domestico hanno imposto nell’agenda altri affanni e urgenze (anche di cassa). 
Per fare qualche esempio, l’ultimo anno le banche operanti in Italia hanno dovuto sborsare oltre 7 miliardi, nei fondi collettivi creati per salvare istituti vicini al fallimento (la somma è quasi identica, per un caso, agli utili netti 2015 del settore, e al valore dato al capitale di Bankitalia, che prima della riforma era al valore storico di 156mila euro. Le Fondazioni hanno “dovuto” mettere un cip da 536 milioni nel fondo Atlante, dal quale le casse previdenziali sono tirate per la giacca. Ben altri e meno graditi dossier di investimento insomma. 
Lo stallo in corso rafforza per altro la possibilità che la Banca d’Italia compri azioni dai suoi grandi soci, per rivenderle in seguito. Una facoltà che la legge contempla, e che ha fatto gridare allo scandalo Adusbef e Federconsumatori. «Poiché non crediamo possa essere fatto ora ciò che non è stato fatto in 34 mesi, forse proprio confidando nel paracadute del riacquisto, denunciamo l’ennesimo favore alle banche socie che costringerà Bankitalia a intervenire per ricomprare le quote stesse, staccando un bell’assegno da 3 miliardi come strenna natalizia», hanno dichiarato i leader delle due associazioni, Elio Lannutti e Rosario Trefiletti. 
Ma l’ipotesi di un riacquisto massiccio della vigilanza, nei corridoi bancari, è data per improbabile. Tutti i protagonisti accreditano invece uno scenario inerziale, in cui senza troppa fretta le negoziazioni di quote Bankitalia continueranno. Fino al loro compimento ci sarà una “dieta cedolare” per Intesa Sanpaolo e Unicredit, e in misura minima per Generali e Carige; mentre gli istituti, che tre anni fa hanno contabilizzato rivalutazioni miliardarie sui loro pacchetti storici di Palazzo Koch, non pensano di svalutarle per questo. Nella recente presentazione dei conti di Intesa Sanpaolo, l’analista finanziario di Exane Andrea Vercellone ha chiesto all’ad Carlo Messina se – posto che la riduzione entro il 3% non avverrà entro l’anno – ci fosse per Ca’ de Sass il rischio di dover rettificare il valore di carico. «Avendo già effettuato transazioni, e prevedendo ulteriori operazioni di vendita, non avremo bisogno di fare svalutazioni di sorta – ha risposto il banchiere – in ogni caso il valore delle quote di Bankitalia è legato al dividendo, non al fatto che noi non lo incasseremo l’anno prossimo: il valore delle future compravendite resta intatto».