la Repubblica, 14 novembre 2016
Nel cuore del Libano che dà un riparo ai pastori rifugiati
CAMPO DI SAADNAYEL (VALLE DELLA BEKAA, LIBANO) La valle della Bekaa, in Libano, è una pianura che si estende per 120 chilometri da nord a sud e va dagli 8 ai 14 da est a ovest. Si trova a est di Beirut, circondata da due catene montuose che d’inverno sono abitualmente coperte di neve ma che in questa stagione risentono ancora della siccità estiva. È uno dei polmoni agricoli del Libano, e per arrivarci dalla capitale abbiamo attraversato coltivazioni di frutta, grano, mais, viti, ortaggi e cotone.
Questa valle è stata teatro di tutti i grandi sconvolgimenti politici che hanno attraversato questo Paese negli ultimi cinquant’anni e recentemente, data la sua vicinanza al confine siriano, ha costituito il punto di arrivo di moltissimi profughi e sfollati, in fuga dalla guerra e dalle violenze delle parti in conflitto per cercare un luogo sicuro in cui rifugiarsi in attesa di poter rientrare a casa. Fino a qui apparentemente nulla di nuovo rispetto a quello che vediamo quotidianamente sulle nostre coste e ai confini europei. Quello che tuttavia impressiona, qui, è la proporzione del fenomeno. Il Libano è un Paese di circa 4,5 milioni di abitanti, grande come la Sardegna, e oggi ospita più di un milione di siriani (alcune stimano arrivano a 1,5 milioni) che si aggiungono ai più di 300.000 palestinesi rifugiati in seguito ai conflitti mediorientali degli ultimi 30 anni. I conti sono semplici da fare, significa che un abitante su 3 in Libano è uno sfollato. Verrebbe da pensare che la crisi sia enorme e generi tensioni sociali incontrollabili ed esplosive. Non è così.
Il governo libanese ha infatti scelto, dall’inizio della crisi siriana fino alla fine del 2015, di lasciare aperte le frontiere e di accogliere i profughi, consentendo loro di entrare nel Paese e di rimanerci, riconoscendo lo status di sfollati (una situazione che ricorda quello che successe da noi durante l’ultima Guerra Mondiale, quando i cittadini si rifugiavano in campagna per sfuggire ai bombardamenti) e mettendo in piedi, con l’aiuto essenziale delle agenzie internazionali (l’Alto Commissariato Onu per i Rifugiati in primis) una macchina di assistenza che, pur con molte difficoltà, funziona. Un’accoglienza che nasce dunque da una scelta politica chiara e che è stata seguita dalla reazione positiva della popolazione libanese, che non ha ceduto a istinti di chiusura, non ha invocato antiche rivalità (non va dimenticato che fino a poco più di un decennio fa l’esercito siriano ancora occupava la parte orientale del paese) dimostrando al contrario grande solidarietà. Sono tanti i volontari che abbiamo incontrato e che in tutto il Paese si adoperano per far fronte alle necessità impellenti dei rifugiati, che si rendono disponibili per far loro da sponsor (e dunque garantire per loro affinché possano rimanere nel Paese), che aprono loro linee di credito per le spese primarie. Questo condiziona anche le caratteristiche degli insediamenti in cui vivono i profughi, che non sono concentrati in campi in senso classico ma al contrario sono liberi di muoversi in Libano. L’insediamento che abbiamo visitato a Saadnayel è un agglomerato polveroso che ospita circa 60 famiglie in sistemazioni di fortuna, ma incredibilmente dignitose. Famiglie i cui racconti e i cui sguardi confermano quella che è una costante della storia: a pagare il prezzo più alto delle guerre e delle crisi politiche sono sempre i più poveri. La maggior parte delle persone con cui abbiamo avuto modo di parlare, infatti, in Siria erano contadini e pastori, come Khaled, che è partito con la moglie Asma e i suoi quattro bambini piccoli e che oggi, con altri due figli nati in Libano, ci dice che il suo unico desiderio è «vivere e poter dare ai miei figli una vita degna e rispettabile». Vedere da vicino questa realtà non può che obbligarci a riflettere sulle discussioni che stiamo affrontando in Europa intorno al tema dei migranti.
Come possiamo ragionare di costruire muri e barriere, come è possibile accettare la retorica delle destre che parlano di invasione, di flussi incontrollabili, di impossibilità dell’accoglienza quando a fronte dell’intera popolazione europea i numeri di migranti sono irrisori? L’accoglienza è non solo possibile ma doverosa e necessaria, se ancora vogliamo credere che il sogno europeo abbia un futuro e un senso di esistere. Altrimenti i valori di democrazia e uguaglianza dei diritti che hanno costituito il fondamento del progetto europeo saranno definitivamente carta straccia.
Vale la pena ricordare che proprio l’Alto Commissariato Onu per i Rifugiati nacque per far fronte alla crisi dei profughi ungheresi dopo gli avvenimenti del 1956. Oggi l’Ungheria è in prima fila tra i Paesi che rifiutano di aprire le loro porte. E allora viene da citare, come ha fatto poco più di una settimana fa papa Francesco, ciò che ha dichiarato l’arcivescovo Hieronymos di Grecia visitando il campo profughi di Moria a Lesbo: «Chi vede gli occhi dei bambini che incontriamo nei campi profughi è in grado di riconoscere immediatamente, nella sua interezza, la “bancarotta” dell’umanità».