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 2016  novembre 14 Lunedì calendario

In morte di Caccia Dominioni

Stefano Bucci per il Corriere della Sera Ha mancato, di poco, l’ennesimo appuntamento con la sua «milanesità»: Luigi Caccia Dominioni, il Caccia o il Gigi dipendeva dal grado di confidenza, è morto ieri a Milano pochi giorni prima di quel fatidico 7 dicembre che (oltre che la festa del patrono, Sant’Ambrogio, e giorno della prima della Scala) era anche il suo compleanno. L’architetto (cugino del Paolo Caccia Dominioni artista-illustratore ed eroe di El Alamein), simbolo di una certa borghesia meneghina ricca e colta, avrebbe compiuto 103 anni, una cifra che non lo impressionava più di tanto, come non l’avevano impressionato neppure i festeggiamenti, nel 2013, per i suoi «primi» 100, quando il Politecnico gli conferì una medaglia d’oro. 
Nella sua (vastissima) produzione ci sono edifici e oggetti che hanno trasformato e modernizzato il modo di essere e di vivere Milano e quello che Milano a lungo ha rappresentato e ancora rappresenta: l’italian style. Un modello molto borghese che Caccia Dominioni ha concretizzato in simboli ormai universali come il palazzo di Corso Monforte (1963-1964), la Biblioteca Vanoni di Morbegno (1965-1966) e poi la lampada Monachella (1953), la poltrona Catilina (1958), la maniglia San Babila (1968) il mobile bar Scala (1972), la poltrona Toro (1973), il tavolo Alzabile (1981). 
«Ho sempre e solo pensato a fare un’architettura da vivere» aveva detto in un’intervista al «Corriere» proprio in occasione del suo centenario, mentre le archistar (Caccia Dominioni era un altro dei grandi vecchi che odiava profondamente quel modo di progettare mentre gli piaceva tantissimo trovare per i suoi lavori nomi incredibili, magari pescandoli da Cicerone) «pensano all’architettura solo come a un monumento per loro stessi». Quello che contava per il Caccia (che tra i suoi maestri e colleghi amava ricordare Moretti, Portaluppi, i BBPR, i tre Castiglioni, Gardella, Magistretti, Zanuso) era «trovare la soluzione giusta che faccia vivere al meglio il committente e la sua famiglia».
Certo, essere milanesi aveva la sua importanza: «Milano – ribadiva spesso con quel suo inconfondibile understatement – ha sempre mantenuto una dimensione umana e i suoi abitanti sono speciali perché hanno questa incredibile voglia di fare». Unico era anche il panorama che ha fatto da sfondo alla sua vita e al suo lavoro: ancora una volta Sant’Ambrogio e la facciata di quella basilica che il Caccia vedeva ogni giorno affacciandosi dalle finestre del palazzo dove ha sempre vissuto e lavorato. Luogo simbolo di un modo di essere (e di progettare) consapevole delle proprie radici ma anche capace di pensare internazionale, in grande, che Luigi Caccia Dominioni ha rappresentato come nessun altro.

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Carlo Olmo per la Repubblica 

Chissà quanti cittadini milanesi uscendo da piazza San Babila e percorrendo a piedi corso Europa si domanderanno chi era l’architetto che quegli uffici, all’apparenza conformi e schivi, li progettò in anni difficili (in due fasi tra il 1953 e il 1966). Quell’architetto viveva in piazza Sant’Ambrogio in una casa di famiglia da lui riprogettata dopo le distruzioni della seconda guerra mondiale.

È difficile sottrarsi ai luoghi comuni ricordando Luigi Caccia Dominioni, scomparso ieri a 103 anni (era nato a Milano nel dicembre del 1913). Di lui, che sembra raccontare la storia di una élite milanese scomparsa ormai da decenni, esistono persino itinerari consigliati a Milano. Eppure le etichette davvero poco si attagliano a un progettista così riconosciuto dalla sua comunità professionale (gli architetti quando si incontrano ne parlano quasi in estasi) e al contempo guardato quasi con fastidio da storiografie che ancora procedono per eroi ed eccezioni. Perché Caccia Dominioni, pur nato e cresciuto nell’alta borghesia milanese, è un architetto che lavora e reinventa la vita quotidiana, non i suoi simboli. E ricordarlo oggi segnala forse come prima meditazione quanta strada debba ancora fare la storia dell’architettura contemporanea. E quanto quest’architettura che nasce da una cura quasi maniacale della distribuzione spaziale e del disegno delle connessioni, ci metta oggi quasi a disagio. La sua architettura richiede davvero un saper guardare. Ad esempio come collega la sua residenza in piazza Carbonari e la Chase Manhattan Bank o come non coltivi tipologie da cui far nascere modelli e copie da iterare quasi ovunque, ma sorprenda per la sua capacità di ricominciare ogni volta da come quello spazio possa interpretare una committenza prima, una non sempre facilmente prefigurabile utenza poi, come nelle residenze di via Massena.

Oggi che è morto, tanti cercheranno di appropriarsi della sua lezione di civiltà costruttiva. Eppure forse pochi architetti hanno lasciato tante tracce, tanti edifici, in un’unica città e in luoghi tanto visibili. Saper guardare certo, ma senza distrazione. Certo era un architetto collocato nel suo milieu sociale e per quello ha costruito, divertendosi a reinventare spazi improbabili come i corridoi, spazi dimenticati se non negati dall’architettura funzionalista prima, dall’International Style poi, o oggetti come la maniglia che ironicamente battezzerà Melanzana e che conoscerà un successo quasi improbabile.

Certo non era un architetto populista. Ma anche questo sereno e understated appartenere al suo contesto sociale è una lezione su cui riflettere. Come i suoi riservati e dimenticati capolavori: la Fabbrica Loro Pasini e le residenze in via Ippolito Nievo a Milano o la biblioteca civica Ezio Vanoni a Morbegno.

Chissà quanti cittadini milanesi uscendo da piazza San Babila e percorrendo a piedi corso Europa si domanderanno chi era l’architetto che quegli uffici, all’apparenza conformi e schivi, li progettò in anni difficili (in due fasi tra il 1953 e il 1966). Quell’architetto viveva in piazza Sant’Ambrogio in una casa di famiglia da lui riprogettata dopo le distruzioni della seconda guerra mondiale.

È difficile sottrarsi ai luoghi comuni ricordando Luigi Caccia Dominioni, scomparso ieri a 103 anni (era nato a Milano nel dicembre del 1913). Di lui, che sembra raccontare la storia di una élite milanese scomparsa ormai da decenni, esistono persino itinerari consigliati a Milano. Eppure le etichette davvero poco si attagliano a un progettista così riconosciuto dalla sua comunità professionale (gli architetti quando si incontrano ne parlano quasi in estasi) e al contempo guardato quasi con fastidio da storiografie che ancora procedono per eroi ed eccezioni. Perché Caccia Dominioni, pur nato e cresciuto nell’alta borghesia milanese, è un architetto che lavora e reinventa la vita quotidiana, non i suoi simboli. E ricordarlo oggi segnala forse come prima meditazione quanta strada debba ancora fare la storia dell’architettura contemporanea. E quanto quest’architettura che nasce da una cura quasi maniacale della distribuzione spaziale e del disegno delle connessioni, ci metta oggi quasi a disagio. La sua architettura richiede davvero un saper guardare. Ad esempio come collega la sua residenza in piazza Carbonari e la Chase Manhattan Bank o come non coltivi tipologie da cui far nascere modelli e copie da iterare quasi ovunque, ma sorprenda per la sua capacità di ricominciare ogni volta da come quello spazio possa interpretare una committenza prima, una non sempre facilmente prefigurabile utenza poi, come nelle residenze di via Massena.

Oggi che è morto, tanti cercheranno di appropriarsi della sua lezione di civiltà costruttiva. Eppure forse pochi architetti hanno lasciato tante tracce, tanti edifici, in un’unica città e in luoghi tanto visibili. Saper guardare certo, ma senza distrazione. Certo era un architetto collocato nel suo milieu sociale e per quello ha costruito, divertendosi a reinventare spazi improbabili come i corridoi, spazi dimenticati se non negati dall’architettura funzionalista prima, dall’International Style poi, o oggetti come la maniglia che ironicamente battezzerà Melanzana e che conoscerà un successo quasi improbabile.

Certo non era un architetto populista. Ma anche questo sereno e understated appartenere al suo contesto sociale è una lezione su cui riflettere. Come i suoi riservati e dimenticati capolavori: la Fabbrica Loro Pasini e le residenze in via Ippolito Nievo a Milano o la biblioteca civica Ezio Vanoni a Morbegno.