La Stampa, 13 novembre 2016
La partita che si gioca sul clima
Cosa succederebbe se il neopresidente degli Stati Uniti decidesse di recedere dall’accordo di Parigi (Cop21) sul clima? Saremmo spacciati.
Vediamo il perché. Il primo problema è la quantità di emissioni in gioco.
Con circa il 16 per cento di CO2 fossile rilasciato dagli Usa in atmosfera a livello globale, valore secondo solo al 28 per cento della Cina in termini di singola nazione, un’eventuale marcia indietro di Trump renderebbe più difficile il raggiungimento degli obiettivi di riduzione da parte degli altri Stati. Il secondo problema è di politica economica: se gli Usa si sfilassero dagli accordi Onu quanti sarebbero gli altri Paesi disposti a mantenere gli impegni presi, visto il disequilibrio che si verrebbe a creare sul piano economico? Maggiori tasse sulle emissioni delle nazioni aderenti penalizzerebbero le loro attività produttive, offrendo agli Usa un ingiustificato vantaggio competitivo. Il terzo problema riguarda la psicologia sociale e la comunicazione: su un tema così dibattuto come quello dei cambiamenti climatici, dove già ora è difficilissimo far emergere la migliore (e preoccupante) conoscenza scientifica rispetto alle chiacchiere dei bar o al negazionismo organizzato, un Presidente che denigrasse senza scrupoli i risultati della ricerca climatica, susciterebbe un’ondata di dubbi a livello globale, e richiederebbe un enorme sforzo comunicativo per ricostruire la credibilità dei centri di ricerca e dell’Intergovernmental Panel on Climate Change.
Quarto problema, ed è il più grave: la corsa contro il tempo. Se avessimo margini indefiniti per correggere la rotta di collisione con la catastrofe climatica, Trump non rappresenterebbe un problema rilevante: segnerebbe certo un rallentamento del processo di riduzione dell’inquinamento ma nulla più, passato lui si riprenderebbe il percorso. Ma questi anni, diciamo i prossimi 15, sono fondamentali per prevenire l’aggravarsi irreversibile della malattia climatica. Sono gli anni decisivi a determinare la traiettoria della temperatura terrestre, due gradi di aumento entro il 2100 rispetto al periodo preindustriale se l’accordo di Parigi sarà rispettato, cinque gradi in più qualora non applicato. Se Trump rimanesse in sella per due mandati, consumerebbe gran parte della «finestra» utile per ottenere risultati tangibili nella lotta al riscaldamento globale, e precipiterebbe tutta l’umanità in una zona rossa di grave pericolo per la stabilità degli ecosistemi che ci permettono di vivere sulla Terra. Il fatto che il neopresidente sia fortemente sostenuto da petrolieri e carbonieri è una grave minaccia per la transizione verso le energie rinnovabili: sappiamo che se si vogliono raggiungere gli obiettivi di Cop21 gran parte delle riserve ora note di petrolio e carbone dovranno essere lasciate sottoterra. Su quali uscite di sicurezza possiamo contare allo stato attuale? Una è diplomatica: consolidare al più presto una normativa internazionale in grado di vincolare anche gli Usa a un’accettazione di un percorso comune, e in questo sarà determinante il ruolo della Cina, che si farà capofila della green economy mondiale insieme all’Europa. Una è scientifica: la ricerca Usa sul clima, che probabilmente verrà ridimensionata nei finanziamenti, spingerà molti scienziati a prendere posizione, come già hanno fatto Jim Hansen della Nasa e Michael Mann della Penn University. L’ultima è etica: papa Francesco si è espresso chiaramente a favore della lotta ai cambiamenti climatici con l’enciclica Laudato Si’: Trump è stato fortemente votato dai cattolici, speriamo che abbia paura dell’inferno, evitandolo così anche a tutti noi cittadini del mondo.