la Repubblica, 13 novembre 2016
Intervista a Paolo Gioli
Avevo conosciuto Paolo Gioli a Roma nella galleria Il Timpano che esponeva le sue foto, i suoi video, la sua incazzosa ritrosia. Che non è solo la sua ma anche quella che raccoglie dal mondo. E mi sembrò fornito di una grandezza senza una vero confine tra cinema, fotografia e pittura. Gioli vive a Lendinara, in una casa di campagna non distante da Rovigo. Le sue opere stanno suscitando l’attenzione di molti musei internazionali e l’impressione è che lui, come tutta risposta, si sia fatto più refrattario e chiuso. Alla stazione di Rovigo mi viene a prendere la moglie Carla. È stata per quasi quarant’anni infermiera in un ospedale psichiatrico. È una donna paziente. Pratica. Mentre guida, è ormai sera, solleva la mano per schiarire il parabrezza appannato. Il rumore della fede sul vetro contrasta con quello della pioggia. Accanto corre l’Adige. Siamo nel Polesine. Nove gatti vivono nella casa di Gioli. Si sono spartiti lo spazio. Chi in cucina. Chi nello studio. Chi nell’ingresso. Li chiama per nome. Se all’appello manca qualcuno, va a cercarlo.
È un uomo ansioso?
«Lo sono come tanti nevrotici».
Come si definirebbe?
«Da quale punto di vista?».
Artistico.
«Beh, sulla carta d’identità c’è scritto fotografo. Sono anche un film-maker. Dipingo, anche se l’ho fatto soprattutto in passato. Nessuno si interessava ai miei quadri. Oggi, a quanto pare, se li contendono i musei e le gallerie del mondo».
Dove è nato?
«A Sarzano, una trentina di chilometri da qui. Ero abbastanza povero da non potermi permettere neppure una bicicletta con cui andare a Rovigo. Coprivo la distanza a piedi o con qualche passaggio di fortuna. A 15 anni scoprii l’esistenza di una biblioteca».
La scoprì e fece cosa?
«Cominciai a frequentarla. A scuola andavo mal volentieri. Lì, invece, mi sembrava di essere in un luogo protetto. Ci passavo le giornate. Al riparo dal freddo e dalla noia. Mio padre non capiva».
Era un contadino?
«No, era geometra. Purtroppo era anche alcolizzato. Allora non c’erano centri per curarsi. Soffriva di una grave depressione. Sbatté in faccia a tutti i nove figli la sua miseria e la sua disperazione. Si dice che, dopo una certa età, si viva di ricordi. E che la nostalgia sia la triste bellezza dell’anima. Io non voglio ricordare ed è come se in quel lontano 1942 non fossi mai nato».
Cancellare il passato?
«Pensarlo in una nuova lingua, del tutto inventata. “Non combinerai mai nulla nella vita”, diceva mia madre. Con rabbia e curiosità vagavo per le campagne. Sarzano non è un villaggio, è una contrada, dove non c’era nulla».
Cosa vuol dire una nuova lingua?
«Qualcosa che portavo dentro e non usciva. Ero come muto. Poi un giorno, vidi in uno spazio all’aperto un artista scolpire la pietra. Stetti una settimana dietro al cancello a osservarlo. Alla fine mi fece entrare e mi chiese: perché sei sempre qui? Perché voglio fare l’artista, risposi. Sarai un altro di quegli sciagurati che finiranno male, commentò acido. Un giorno mi regalò dei pezzi di tela e dei tubetti di colore. Mi misi a lavorare accanto a lui. Gli piacquero i miei quadretti».
Chi era lui?
«Virgilio Milani, un artista senza storia. Poteva nascere ovunque, vivere ovunque, in un tempo qualunque. Venne su da quel buco di provincia. Andai a vivere da lui. Mi disse: detesto i parenti, sposati con Carla e venite a stare da me. Cominciò questa lunga coabitazione. Dagli anni Sessanta fino alla sua morte nel 1977. Le sue terrecotte e bronzi mi affascinavano: nudi, volti, corpi nelle classiche posture che sapevano di antico. Un giorno lo portai a Venezia a vedere il Living Theatre.
Ne uscì sconvolto. Era come se improvvisamente comprendesse il potenziale eversivo dei linguaggi. Lasciò scritto, poco prima che se ne andasse per una leucemia, ormai sconfitto e avvilito, che preferiva che i suoi lavori andassero distrutti piuttosto che esposti in mostra. Per fortuna che molto gli è sopravvissuto».
In quel periodo di convivenza cosa faceva?
«Se non ero con lui e mia moglie, passavo dei lunghi periodi solitari a Venezia, Milano, Roma. Per un anno e mezzo ho vissuto a New York».
Perché scelse di andarci?
«Ero a Venezia, dipingevo ma nessuno comprava niente. L’”arte povera” cominciai a provarla duramente sulla mia pelle. A un amico dissi: andiamocene in America, partiamo per New York. Ci imbarcammo a Genova. Era il 1967. Il viaggio fu spaventoso».
Perché?
«La nave si chiamava Constitution, era il suo ultimo viaggio. Prendemmo un fortunale in pieno. Durò qualche giorno. Pensavo che non ce l’avremmo fatta. Per il movimento delle onde l’elica usciva dall’acqua. Girava a vuoto facendo un rumore infernale. Eravamo stati alloggiati nelle stive. A ridosso dei motori. Con noi, c’era una coppia da poco sposata, un reduce di El Alamein, e un suo amico pittore: un futurista fuori tempo massimo e poi c’era un signore malinconico di più di sessant’anni. Dormivamo su dei letti a castello».
Un grumo di disperati.
«Finalmente arrivammo. Con visto turistico. Ma non avevamo nulla del turista. Sbattemmo contro l’inverno più duro da mezzo secolo. Un’agenzia ebraica ci trovò due stanze nel quartiere portoricano. Il mio amico, dopo neanche un mese, decise di tornare dalla moglie. Mi restavano pochi dollari. Entrai in un supermarket. Comprai un pacco di spaghetti. La zuppa Campbell, un gallone di vino rosso. Era un Chianti della California. Mi sentii meglio. Le strade erano piene di tossici e prostitute. Sembravo un personaggio di Taxi Driver».
Dov’era il futuro?
«Già dov’era? Alla fine seppi di una signora ebrea, una scrittrice che avrebbe potuto darmi una mano. Andai a trovarla: Ruth Kaufmann il suo nome. Da giovane era stata un’allieva di Gershwin. Mi squadrò, mi offrì del tè e alla fine con quel poco di inglese che avevo imparato capii che mi avrebbe aiutato».
«Mi trovò un posto in Union Square dove vivere. Mi anticipò qualche soldo. E, poi, cosa strana per me, disse che avrebbe assicurato la mia mano destra. Andai così ad abitare nella nuova casa. C’erano delle pareti abbastanza ampie dove potevo appendere dei rotoli di carta e lavorare. Passò del tempo. Un giorno accadde un episodio».
Quale?
«Era un caldissimo pomeriggio di giugno. Scesi per comprare delle birre. Tornai con un sacchetto, lungo le scale fui investito da un uomo con una camicia sporca di sangue che urlava. Era Jerry Malanga, gridò che avevano sparato a Andy Warhol. Dopo un po’ giunse un’ambulanza e portarono giù il corpo di Warhol. Lo avevano sistemato su una barella, ma in una posizione da seduto, forse per contenergli l’emorragia. Aveva una camicia a righe orizzontali e notai che un infermiere con una piccola Minox gli fece delle foto. Le avrei riviste anni dopo su un libro».Sembra che le dispiaccia.
«Sì puoi fotografare la morte, in fondo non si fa altro. Ma non è giusto violare una vita che se ne sta andando».
Warhol sopravvisse.
«Sì, quella pallottola, che gli sparò Valerie Solanas,convinta che la Factory era l’impero del male, gli cambiò letteralmente la vita. In peggio. Ricordo che il giorno dopo ero da Leo Castelli, non si parlava d’altro. Lui disse: si può uccidere per amore, per interesse, per follia. Quello che non si può ammazzare è il mercato».
Cosa era andato a fare da Castelli?
«Frequentavo la sua galleria. Mi aveva preso in simpatia. Voleva che gli parlassi in triestino. Gli dissi il mio dialetto è di Rovigo non di Trieste. Fa lo stesso, mi rispose. A me piacciono i dialetti italiani».
Aveva visto i suoi lavori?
«No, non fece in tempo perché mi espulsero».
Cioè?
«Ruth invece di farmi rinnovare il visto turistico, chiese per me la carta da immigrato. Sembrò la decisione giusta, anche perché mi aveva fatto ottenere una borsa di studio con la Cabot. Pensavo di farcela. Ma il tasso di violenza salì precipitosamente. Assassinarono prima Luther King e poi Bob Kennedy. New York era un deserto. La mattina seguente fui fermato da due poliziotti. Notarono che avevo un distintivo con su scrittoI have a dream. Mi chiusero in una stanza e mi interrogarono. Il visto turistico era scaduto. La domanda da immigrato sospesa».
A quel punto?
«Un tenente mi disse ci sono due strade. O torna in Italia con i suoi soldi, oppure la mandiamo via a nostre spese. In questo caso lei non potrà più rimettere piede nel nostro paese. Usai gli ultimi dollari della Cabot per il biglietto aereo. Fu uno shock. Avevo tutto e mi ritrovavo con niente».
Che tipo di artista ritiene di essere?
«Non mi piace la parola sperimentale. Che sa tanto di precarietà. Tendo a qualcosa di nuovo usando la cinepresa. Alcuni mesi fa sono stato invitato ad Harvard a presentare i miei film. Li hanno comprati e messi a disposizione degli studenti. Ho lavorato molto con il sistema delle Polaroid».
Cosa l’affascina della Polaroid?
«Il lavoro sul colore. Edwin Land, che inventò la Polaroid, ha la stessa importanza di Louis Daguerre. Mi piace la sua apparente immediatezza e imperfezione, come pure la mancanza di alta definizione, che è puro conformismo. E poi mi piace il suo fallimento. Il suo essere uscita di scena».
È attratto dai temi dell’emarginazione e della morte.
«Ci ritrovo una parte della mia esistenza. Il personaggio che meglio ha rappresentato questa condizione fu Hippolyte Bayard. È stato il primo a realizzare su carta il positivo diretto. In pratica anticipò la polaroid. Lavorava come impiegato alla dogana, ma era più bravo come fotografo. Nel 1840 si auto-fotografò rappresentandosi come fosse un annegato. Fu un modo per denunciare la sua emarginazione. Gli ho dedicato una mostra. Un giorno finirò anch’io nella simulazione di un suicidio».
Simulare è diverso che mettere in pratica.
«È la stessa differenza che passa tra una visione normale della vita e una visione barocca. La morte, quale che sia, spinge all’anonimato, all’insignificanza. Ci affanniamo a lasciare documenti. Ma bisogna saperli leggere, raschiando tutto l’equivoco della memoria. Quando ho realizzato il ciclo di opere dedicate agli sconosciuti ho capito quanto sia importante non lasciarsi condizionare dal tempo».
Gli “sconosciuti” chi sarebbero?
«Il residuo di un gruppo di foto, negativi degli anni Cinquanta, che rintracciai presso un fotografo locale. Se ne stava per liberare e si accorse che su quelle immagini di volti, quasi tutte realizzate per delle carte di identità, qualcuno, un artigiano anonimo e bravissimo, aveva operato dei ritocchi. Erano volti di uomini, donne, bambini. Molti di loro probabilmente già morti. Il mio lavoro è stato di modificarli su una pellicola 35 millimetri, ricreando la forma di una lastra che desse un’identità nuova a un volto ormai perduto o dimenticato».
Non è questa la lotta dell’arte contro il tempo?
«È la lotta nella morte e contro la morte. Una delle ragioni per cui mi piace accogliere gli animali che la gente abbandona è che loro hanno un senso della morte molto diverso dal nostro».«È come se l’avessero alle spalle, mentre noi siamo condannati a viverla. Spesso esitiamo davanti alla sua forza. Però ogni volta che la incontro è come se mi costringesse a dire: cosa è diventata la mia vita?».
Si è dato una risposta?
«Lascio che siano le immagini che costruisco a rispondere. Vivo immerso nella storia dell’arte. Ma al tempo stesso lego i miei lavori alla botanica, alla zoologia, alla fisica. La mia ossessione è provare a conoscere l’origine delle cose. Un artista ha questa missione. Ora sto finendo un film su Ernst Haeckel, uno scienziato affascinante che alla fine dell’Ottocento promosse il pensiero di Darwin, ma anche quello di Goethe sulle metamorfosi. Il mio è un lavoro sui grandi dimenticati».
L’affascina la dimenticanza?
«L’oblio è necessario per poter agire liberamente. Guai sentirsi esposti e permanentemente osservati. Per le stesse ragioni amo il buio. Tutto il mio lavoro si è svolto al buio e non ho mai capito l’ostilità di Dio verso il buio. Senza di esso non avrei mai potuto stampare una foto. Tutta la mia opera si può leggere come un grande omaggio al buio».