la Repubblica, 13 novembre 2016
Peter Greenaway
ROMA «UN FILM», DICE PETER GREENAWAY nel foyer del teatro Argentina, «ha tre movimenti: l’idea iniziale, la messa in scena e il montaggio. Ogni passaggio ha bisogno di una specifica preparazione: la scrittura come punto di partenza, l’arte visiva, la tecnica che trasforma la serie di immagini in una storia. Io li conosco bene tutti e tre». Nato nel 1942 a Newport, nel Galles, Peter Greenaway è in Italia per accompagnare Nightwatching, il film ispirato al quadro di Rembrandt conservato al Rijksmuseum di Amsterdam. Che viene presentato dal distributore, “Lo Scrittoio”, in maniera non tradizionale, con una mini tournée nei teatri. «Volevo diventare un pittore. Ho una formazione solida, classica, ho frequentato la scuola pubblica inglese e ho imparato quello che c’è da sapere sulle scienze umane. Poi per cinque anni ho studiato arte al college. Infine, quando ho deciso di dedicarmi al cinema, ho lavorato come montatore. Posso dirlo con cognizione di causa: il ruolo più importante, al cinema, è quello del montatore».
Il suo primo film è del 1982, I misteri del giardino di Compton House: la musica di Michael Nyman (che collaborerà con lui per altri undici film), il Diciassettesimo secolo (e quelle parrucche e costumi che solo lui riesce ad affrancare dal ridicolo), l’immagine costruita come un quadro, le tavole imbandite, l’ossessione per le vite degli artisti… C’è già tutto. Nel 1987 gira Il ventre dell’architetto, storia di un Stourley Kracklite che viene a Roma per allestire, nel Complesso del Vittoriano, una mostra su Étienne-Louis Boullée, visionario architetto settecentesco del quale nessuno dei progetti fu mai realizzato.
Convinto che la moglie lo tradisca e lo stia avvelenando, precipita in un delirio visivo e psichico, cullato da una attualizzata sindrome di Stendhal. «Roma», dice Greenaway, «è il nocciolo della cultura europea. È stata al centro della storia per tre secoli e mezzo, nessuna città è stata così importante e così a lungo. Atene ha avuto un momento di enorme fortuna, ma poi è scomparsa del tutto dal radar della cultura. Ho vissuto qui per un anno, quando giravo il film, ma non parlo italiano e sono solo un turista. Non posso dire niente tranne che ho settantaquattro anni, e sono venuto a Roma la prima volta quando ne avevo tredici, e ogni volta vengo sopraffatto dall’emozione».
Il ventre dell’architetto parla di… «sesso e morte», mi interrompe Greenaway, «tutta l’arte parla solo di sesso o morte, di cos’altro dovrebbe parlare? Balzac suggerisce anche il denaro, ma il denaro ci serve a negoziare il sesso, ad allontanare, per quanto è possibile, la morte. Basta pensare a Shakespeare. L’orgasmo è chiamato piccola morte ed è l’unica cosa che riguarda ognuno di noi. Io non so niente di lei», dice indicandomi, «ma so che morirà e che è nata attraverso un atto sessuale. Tutto il resto è opinabile, accidentale: nazionalità, religione, razza…». L’architettura è una sua grande passione. «Lo è, credo sia il rifugio di ogni altra arte. Ma ho la sensazione che ultimamente gli architetti, penso a Frank Gehry e Libeskind, abbiano smesso di lavorare per la posterità, e si dedichino, come tutti, all’effimero». Crede che anche il cinema sia un’arte effimera, che sparirà? «Credo che stia già morendo. Se n’è accorta persino Hollywood e sta cercando qualcos’altro. Forse le serie tv sostituiranno il cinema blockbuster, forse l’hanno già fatto». Nella Grecia classica c’erano i teatri, poi sono venute le chiese, il melodramma ha imperversato per secoli e adesso è praticamente morto. Se si esclude la Lulu di Alban Berg e il lavoro di Philip Glass, il Novecento ha decretato la morte dell’opera lirica, sostituita appunto dal cinema. Dopo il cinema verrà sicuramente qualcos’altro, no?». Che cos’è il cinema, secondo lei? «Non è scrittura. Gli scrittori non dovrebbero occuparsi di cinema, per nessuna ragione». Vorrei dirgli che l’autore di quello che lui dichiara essere il film più bello della storia, Hiroshima mon amour di Alain Resnais, è Marguerite Duras, ma taccio. Non è facile contraddirlo, è ironico, intelligentissimo, parla un inglese colto contro il quale non è possibile combattere. «Mio nonno», dice, «avrebbe definito il cinema come un grande schermo in fondo a una sala buia, dove siedono molte persone una accanto all’altra. Lei lo definirebbe ancora così? No di certo. Avrà in tasca uno smartphone, sul quale può vedere i miei film, io stesso posso spedire il mio lavoro agli amici a Pechino con un gesto, in pochi secondi. Si ricordi: il mezzo è il messaggio. L’arte deve prima di tutto comunicare, compito di un bravo artista è quindi saper immaginare sempre quale sia il modo migliore per comunicare quello che deve». Ma non le fa impressione sapere che si possono vedere i suoi meravigliosi film in uno schermo così piccolo, con un audio pessimo, nella distrazione totale? «Ovvio che sarebbe meglio schermo gigante, audio perfetto e tutta l’attenzione dello spettatore. Ma io non voglio perdere tempo a occuparmi di cose che non esistono più». Non è scrittura, non è neanche immagine visto che la si può distruggere rimpicciolendola in un quadratino da tenere in tasca, e quindi cos’è il cinema, chiedo. «Gliel’ho detto: montaggio. Nel 1931 Eisenstein, l’inventore del montaggio cinematografico e forse il più grande regista di tutti i tempi, va in Messico a girare un film sulla rivoluzione. Aveva appena diretto La corazzata Potëmkin, era un regista conosciuto anche in America ma Stalin non lo amava più, era deluso dai suoi ultimi film. Per dispetto decise che doveva tornare in Unione Sovietica e Eisenstein dovette abbandonare il film. Affidò il girato allo scrittore Upton Sinclair, col patto che lo spedisse a Mosca, dove non arrivò mai. Il film,Que viva Mexico! uscì montato dagli americani, ma il regista non lo riconobbe mai. Malgrado le immagini fossero le sue e anche l’idea iniziale». Nel 2015 Greenaway ha girato un film su di lui, Eisenstein in Messico.
Adesso è impegnato in un progetto che si intitola Nine classical paintings revisited, le cui prime tappe sono state un lavoro suL’ultima Cena di Leonardo da Vinci e Le nozze di Cana di Veronese, sull’isola di San Giorgio a Venezia. Com’è stato tornare a lavorare in Italia? «Complicato, ma è complicato ovunque mettere le mani sui monumenti. La prima reazione è sempre “tieni lontane le tue macchine tecnologiche, abbi rispetto”. Ma l’arte è sempre rivoluzione e sperimentazione, o non è arte. Rembrandt lavora in un periodo storico, il barocco, fatto di ori, esagerazioni, fastosità. Ma lui veste i personaggi deLa ronda di notte in abiti contemporanei: è uno choc. È la prima volta che qualcuno osa fare una cosa del genere.
è un monumento nazionale per gli olandesi. Dopo la Seconda guerra mondiale gli americani si offrirono di cancellare i loro debiti di guerra in cambio del quadro, ma gli olandesi si opposero. Io abito ad Amsterdam da qualche anno, ma solo dopo moltissima insistenza ho ottenuto i permessi. E la prima notte – lavoravamo di notte per permettere l’accesso agli spettatori – sono stato scortato da tre guardiani, cinque poliziotti e un paio di cani, che sono rimasti tutto il tempo vicino a me. Il giorno dopo sono spariti i cani e qualche poliziotto, la terza sera mi hanno dato le chiavi e sono entrato da solo. I nove quadri su cui ho lavorato – oltre ai citati, Guernica di Picasso, Las Meninas di Velázquez, La Grande Jatte di Seurat, e poi Monet, Pollock e Il giudizio universale di Michelangelo – sono grandi abbastanza da poter essere visti da cinquanta spettatori contemporaneamente. Non avrei potuto farlo con La Gioconda.
Mi serve una folla, un mondo, da animare. Immagino un sonoro, voci, musica, e degli accadimenti, pioggia, fuoco che sembrano aggredire la tela. E studiando ho scoperto che è una specie di giallo, che coinvolge i protagonisti e la committenza. Nel quadro è nascosta la storia di una congiura e di un omicidio: è il mio Csi del Seicento!». Guardando il suo film mi chiedevo se sia una storia vera o se si tratti del suo romanzo. Sorride, Greenaway. «Dovrebbe saperlo: la Storia non esiste, esistono solo gli storici».
È chiaro che i suoi eroi sono i pittori. Ma non c’è neanche un regista che le piace? «Certo: Resnais, come dicevo e L’anno scorso a Marienbad (scritto da Bioy Casares ma anche questo evito di farlo notare…, ndr) sono capolavori. Mi piaceva Lynch e ho amato Cronenberg. Ridley Scott sarebbe un regista eccezionale, se non perdesse tempo a Hollywood. Mi è piaciuto La grande bellezza di Sorrentino, lo trovo un grandissimo film alla Greenaway, non trova anche lei?».