la Repubblica, 13 novembre 2016
Il Messico
CITTÁ DEL MESSICO Quando finalmente Rafa Marquez, l’anziano centrale della nazionale del Messico, spizza la palla di testa e la infila nella porta degli americani, a un minuto dalla fine della partita, l’urlo liberatorio rimbalza dai viottoli del quartiere di Cuauhtémoc ai ristoranti della “zona rosa”, e poi su fino a Colonia Condesa: da una parte e dall’altra della piazza del Angel, il monumento all’Indipendenza che sul Paseo de la Reforma taglia il centro di Città del Messico. Il malefico incantesimo è rotto, e dopo quattro sconfitte in quindici anni, “el Tri” – chiamano così la squadra messicana per il tricolore della bandiera – vince 2-1 nella bolgia di Columbus, in Ohio, lo stadio preferito della nazionale di calcio Usa, un incontro eliminatorio per i Mondiali. E non in una data qualsiasi, ma a tre giorni dalla vittoria elettorale di Trump, l’uomo che per i messicani non è più solo un fantasma cattivo ma ormai una vera e propria rappresentazione del male. «Vedi, così abbiamo dato il benvenuto a Trump», ci dice sorridendo Edgar con cui, insieme a Silverio, abbiamo condiviso le nevrosi calcistiche della serata. «Quest’uomo finirà per portarci fortuna», aggiunge.
La via Rio Lerma, dietro la rotonda dell’Angel, pullula di localini e maxi schermi tv in questo venerdì sera che molti sperano segni l’inizio della rivincita messicana. Ce n’è uno di schermo, piccolissimo, perfino nella bancarella che vende caramelle e altri dolci per garantirsi l’obesità precoce, sul marciapiede. Ma i messicani preferiscono “Hooters”, un locale della catena fast food Usa, famosa per il pollo fritto ma soprattutto per le cameriere in bikini. Qui le ragazze sono meno discinte rispetto alla media americana ma il bello di “Hooters” stasera è che, su due piani, ci sono almeno 50 grandi schermi in HD. Una pacchia per i giovani tifosi che l’affollano. I creativi della “Corona”, la birra più nota in Messico – ma che da qualche anno appartiene a una multinazionale belgo-americana —, avevano capito prima l’antifona, e durante la partita rilanciano aggiornato uno slogan di qualche mese fa. Dice: «Qualcuno vuole costruire muri, ma tu desfronterizate», ossia rompi le tue frontiere. Mentre la nazionale a Columbus segna un gol, colpisce un palo e anche una traversa Edgar, che lavora all’Unam, l’Università pubblica più celebre dell’America latina, espone la sua teoria: «Il nazionalismo e l’isolazionismo di Trump – dice – possono solo far bene al Messico. Perché ci costringeranno a guardare qui dentro, nel nostro Paese, invece di continuare a sognare un’altra vita dall’altra parte della frontiera».
Silverio, che fa il cameriere e ha metà dei parenti a San Diego, negli in Usa, strabuzza gli occhi scettico pensando agli alert del Dipartimento di Stato per convincere gli americani a non venire più in Messico e alla fine degli investimenti dall’estero. «Più chiudono, più ci asfissiano», sentenzia. «Appunto – dice Edgar —, così i nostri governanti saranno costretti a fare politiche sociali per trasformare i poveri in classe media e promuovere il mercato interno». Chi emigra dal Messico – è la tesi – non lo fa solo per ragioni economiche. Fugge anche da un Paese dove regnano impunità e corruzione politica, dove la gente scompare senza lasciar tracce, e dove intere aree sono abbandonate dallo Stato al controllo delle mafie narcos. «La xenofobia anti messicana di Trump può farci ritrovare l’orgoglio di costruire qui un Paese migliore, mentre finché ci sarà la valvola di sfogo dell’emigrazione preferiremo andarcene», conclude.
All’inizio del secondo tempo, la partita sembra di nuovo stregata. Gli americani pareggiano e l’arbitro nega un rigore netto al Messico. Fra i tavoli di “Hooters” serpeggiano nervosismo e maledizioni, mentre allo stadio la squadra s’imballa e scoppia qualche rissa in campo. Calciatori fiacchi e spaesati proprio oggi che dovevamo far vedere a Trump l’orgoglio del Messico? Alla fine i messicani chiudono in dieci per l’espulsione di Salcedo, ma il vecchio Rafa Marquez, 37 anni, ex campione del Barça in Spagna e oggi tornato in patria per finire la carriera, ha già messo in rete la palla del secondo gol. «Alla faccia di Trump, alla faccia di Trump», urlano i messicani.
Così la vendetta è compiuta, e in uno swing state che si è schierato con Trump e contro Hillary. Ma era solo una partita. Nell’ultima riunione di governo, poche ore prima dell’incontro, i politici hanno messo a punto il piano d’emergenza per il Messico. La Banca centrale aumenterà il tasso di cambio per frenare il crollo della moneta e, se serve, imporrà un controllo sull’acquisto di dollari. Il presidente Peña Nieto ha anche promesso un programma speciale per trovare subito un lavoro ai messicani illegali negli Usa quando – come minaccia Trump – saranno deportati. La notte del Messico potrebbe essere appena cominciata.