Corriere della Sera, 13 novembre 2016
Un continuo dialogo con la natura. Quel contemporaneo «en plein air»
L’arte moderna si diede definitivamente appuntamento in giardino intorno alla metà dell’Ottocento, anche grazie al fatto che un americano inventò il tubetto di stagno con la miscela dei colori – prima di allora ciascun pittore, con pazienza, doveva schiacciare, mescolare, amalgamare le tinte e al massimo le poteva portare fuori dentro piccole sacche di origine animale.
Dunque, ecco la natura come altro da sé, qualcosa da scoprire, analizzare non tanto con l’occhio del vedutista, ma con lo sguardo di un figlio del progresso. Era una natura forte e fatta di colori puri (non mescolati sulla tavolozza), come quella degli Impressionisti. I fiori di Pissarro e di Monet luccicano di questa qualità quasi artificiale, tanto che uno dei numerosi critici del movimento una volta disse che tanto valeva «caricare un fucile di colori brillanti e sparare sulla tela». Il giardino diventava simile a un laboratorio scientifico, dove si poteva osservare l’influenza della luce sui riflessi violacei delle ninfee o dove la nuance delle rose selvatiche si riverberava sulla pelle delle ragazze di Renoir, in un gioco pittorico che univa ricerca, curiosità, fiducia nel progresso.
Poi arrivò Van Gogh, uno che il giardino non lo analizzava né lo stava a osservare assorto per ore, ma uno che il giardino lo viveva. Con il freddo, con le mani nude, in un superamento dell’idea di en plein air. Proprio come andava incontro ai derelitti e meditava di salvarli, dipinse giardini e fiori come se fossero state delle persone. Ci visse dentro, sfidando il vento e la stanchezza. Il giardino di Daubigny, per esempio, lo fece in tre versioni, una delle quali con una specie di «zoomata» sui fiori, quasi stesse raccontando la storia umana di quell’appezzamento di terra appartenuto ad un altro grande artista – Charles-François Daubigny.
Fece anche i Girasoli, una delle serie più discusse e famose, dove il fiore occupa quasi tutto lo spazio della tela come se fosse un ritratto, nella tradizione rinascimentale. Non solo: nella sequenza fiorita, ne colse meticolosamente tutte le fasi della vita, dallo sbocciare all’appassire. Il fatto è che, come scrisse in una lettera, dipingere fiori gli «procurava gioia». Una umanità floreale, questa, che si ritrova, inaspettatamente, in Andy Warhol, il quale spinge all’estremo l’aura sacrale nelle serigrafie del 1964, in quell’estate in cui, anche grazie alla collaborazione di Gerard Malanga, dipinse qualcosa come 900 «ritratti» di fiori. Warhol era cresciuto in una famiglia credente e per di più di rito ortodosso, dunque anche qui (come con i volti di Marilyn Monroe o di Mao Tse Tung) si ispirò alla cifra ripetitiva del sacro. I fiori come le icone russe, seriali e «vivi». Vivissimi.
E l’arte contemporanea di Daniel Buren, ospite della edizione 2016 di «Visioni in Dialogo», si aggancia proprio a questo spostamento di prospettiva che porta in primo piano la natura (e il giardino) rispetto all’artificio. «Je suis un artiste sans atelier», ha detto più volte Buren, il quale, appunto, non lavora in studio perché opera «in situ», con delle creazioni realizzate appositamente in alcuni luoghi prescelti.
L’arte ambientale si muove in questa direzione, ma Buren ne ha fatto una sorta di manifesto: in particolare, in un testo del 1971, ha attaccato gli studi al chiuso, facendosi portavoce in sostanza di una nuova forma di en plein air declinata sui codici dell’avanguardia. Il suo «all’aria aperta» diventa una conversazione infinita con l’ambiente circostante: l’opera di Buren ospitata presso la collezione Gori nella Fattoria di Celle, a Santomato di Pistoia, dal titolo La cabane éclatée aux 4 salles è un parallelepipedo aperto al cielo, in mezzo agli alberi e rivestito interamente, al suo esterno, di specchi. Questo per farlo «sparire» nel verde, per annullare l’opera d’arte e mettere in primo piano la natura.
Così, con questa nuova forma di arte en plein air, si chiude il cerchio del nostro racconto, iniziato con un bisogno di «studiare» il giardino e terminato con un bisogno oggi certamente più intimo e diffuso: «vivere il giardino».