Corriere della Sera, 13 novembre 2016
«La riforma? Tra Stato e Regioni è giusto rimettere le cose a posto». Intervista a Raffaele Cantone
Davvero uno strano Paese, il nostro: dove tutto sembra funzionare al contrario del buonsenso. Tutto sospeso, per esempio, in attesa del risultato del 4 dicembre. Lo sa bene Raffaele Cantone, da due anni e mezzo alle prese con il tentativo di sradicare il male oscuro che ammorba l’Italia. «Per le grandi opere si sta verificando un problema sempre più evidente. Lo spettro della corruzione viene utilizzato per giustificare il non fare», dice il presidente dell’Autorità anticorruzione.
Ha le prove?
«È quanto avvenuto con le Olimpiadi del 2024, e che sta accadendo con i lavori del Terzo Valico. Troppo facile dire “non facciamo le opere” per evitare la corruzione. Mi domando se possiamo bloccare tutto avendo un disperato bisogno di infrastrutture, come in certe città».
Roma, forse?
«Roma è sicuramente un esempio. Ci possiamo permettere di fermare la Metro C perché c’è il rischio della corruzione?».
Ma su quell’opera ci sono problemi enormi, come ha segnalato anche lei. Compreso proprio il rischio di corruzione.
«Ben venga una sospensione per una rivalutazione dell’aspetto economico. Qui dobbiamo chiarire. C’è una scuola di pensiero che cerca di sminuire il pericolo. E so bene che dietro le grandi opere ci sono aspettative di imprese che farebbero ogni cosa pur di mantenere il sistema com’è. Ma se è profondamente sbagliato sottovalutare il rischio, lo è altrettanto accettare che per questo non si debbano fare i lavori pubblici. Il problema è impedire le grandi abbuffate».
Dalle cronache non sembra che finora le cose siano andate in questa direzione.
«In passato sono state fatte scelte legislative non corrette, è vero. La filosofia del fare poteva consentire ogni cosa, ed è così che la legge obiettivo aveva introdotto istituti come il contraente generale che doveva garantire la consegna dei lavori chiavi in mano con tempi e costi certi, ma non si è mai verificato».
Ha una spiegazione?
«Intanto era un istituto estraneo alla nostra tradizione. Ma poi nella pratica si è consenti di modificare le regole dei contratti, ammettendo per esempio le varianti in corso d’opera. Che invece dovevano essere per principio escluse. I contraenti generali si sono trovati davanti impianti contrattuali che hanno consentito loro di fare il bello e cattivo tempo. E la legge obiettivo ha finito per creare un monopolio delle grandi opere in mano a pochi privati».
Molte di quelle opere non sono mai finite.
«Già. Cinicamente, se quel meccanismo avesse consentito davvero di realizzare le infrastrutture necessarie, ci si poteva anche stare. Invece la legge obiettivo ha finito per favorire il malaffare senza nemmeno avere le opere».
Un po’ come la finanza di progetto: il privato mette i soldi per costruire una strada e se la ripaga con i pedaggi. Una barzelletta.
«Anche lì. In un mercato perfetto era uno strumento utile. Il problema è che la maggior parte delle opere con la finanza di progetto sono nate con piani finanziari non sostenibili».
Tipo?
«Sono davvero tanti gli esempi. Nel settore autostradale c’è l’imbarazzo della scelta, dalle Pedemontane alla BreBeMi… L’istituto era serio, l’applicazione sbagliata. Il fatto è che le opere dovevano essere fatte non perché utili, ma per immettere denaro nel sistema».
Girava l’economia, il famoso pil…
«Girava, certo. Ma questa filosofia ha inquinato profondamente i lavori pubblici. E si è ulteriormente aggravata quando nella partita sono entrate le Regioni. Il caso delle autostrade è emblematico. Il sistema si è complicato, le opere non venivano finite e lo stato pagava».
E le imprese incassavano.
«L’eticità del nostro sistema imprenditoriale è un altro grosso problema. Alcune imprese la scoprono soltanto dopo che sono scoppiati gli scandali. Perché chi lavora all’estero rispettando certi standard etici, qui non lo fa? “Così fan tutti”, è la giustificazione. Per entrare in un mercato corrotto bisogna piegarsi alla stessa logica. Ma così non ne usciamo mai!».
Neanche con il nuovo codice degli appalti?
«Contiene alcune buone intenzioni che però rischiano di restare sulla carta. Già oggi alcuni scontenti minacciano di provocare un passo indietro. Si è avuto poco coraggio sull’abolizione del contraente generale, per cui oggi molte amministrazioni stanno provando a farlo resuscitare in modo improprio, per i lavori ordinari. E poi la grande novità secondo cui le gare si possono affidare solo sulla base di progetti esecutivi è oggetto di pesantissime critiche. Così stanno provando a farlo saltare, per tornare ai famigerati appalti integrati».
Questo non tira in ballo anche la qualità della nostra classe dirigente?
«Sicuro. Non è tutta da buttar via, ma spesso si è formata non con il merito. Soprattutto è mancato un miglioramento culturale. Di nuovo pretendiamo di fare una riforma a costo zero».
Per non parlare del delirio di competenze e della sovrapposizione dei ruoli.
«La riforma del titolo V del 2001 è stata un disastro. Si sono moltiplicate le competenze secondo la logica dell’aumento di spesa. Se dai il turismo alle Regioni, ti devi aspettare che qualcuno apra le “ambasciate” non solo a Roma, ma anche in Cina e Australia…».
E la riforma che voteremo il 4 dicembre?
«Quella l’ho studiata bene, e ho verificato che molte affermazioni sentite in questi mesi non hanno fondamento. Probabilmente non l’hanno letta. O l’hanno letta male».
A che conclusione è arrivato?
«Ho sempre detto che per i magistrati è inopportuno partecipare a una campagna elettorale. Ma vedo che qualche mio collega alimenta addirittura i comitati per il No o per il Sì. Non intendo esprimermi nello specifico. Ho rifiutato di partecipare a dibattiti sull’argomento e manterrò questa posizione. Di sicuro andrò a votare perché lo ritengo un momento importante: ho anche spostato il volo che avrei dovuto prendere quel giorno per Washington, dove ho un impegno istituzionale».
La riforma costituzionale, secondo lei, è in grado di rimettere a posto le cose nei rapporti fra Stato e Regioni?
«Vede, noi non abbiamo mai avuto il federalismo, ma un regionalismo nato solo nel 1970. Con la riforma del 2001 abbiamo creato una confusione istituzionale micidiale. Ora abbiamo la necessità che si ripristini il corretto ordine di priorità secondo il principio dell’unità nazionale, e credo molto più razionale un criterio in cui sia lo Stato ad avere la competenza maggiore e quelle residuali e le Regioni solo alcune, e specifiche. In questo modo, fra l’altro, con l’abolizione delle Province, alle Regioni sarà comunque consentito di restare un vero interfaccia dei cittadini».
Diranno che è uno spot per Renzi, lo sa?
«Qui non c’entra nulla, Renzi. Queste cose le ho affermate molto prima che si avviasse la riforma costituzionale. È necessario che vengano eliminati alcuni eccessi burocratici, che sono essi stessi in qualche modo causa della corruzione. Questo cancro viene alimentato proprio dalla cattiva burocrazia e dalla confusione di competenze. E se è vero che la corruzione non si può vincere solo con le leggi, è pur vero che leggi fatte male favoriscono la corruzione».