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 2016  novembre 13 Domenica calendario

Vetri rotti, spari e ciambelle. La delusione travolge Portland. «Ma presto tornerà la calma»

Portland (Oregon) Tristezza e rabbia, nell’uggiosa mattina di Portland, sono scritte sulle facce di tutti. Qui sulla West Coast – in Oregon come in California e nel Washington State – molti non riescono ad accettare il risultato delle elezioni. Già Hillary qui era vista come una conservatrice, Sanders l’ha distrutta nelle primarie: figuriamoci Trump. Ben cinquemila persone sono scese in piazza a protestare ogni sera sin da mercoledì, bloccando il traffico sull’autostrada che circonda questa tranquilla città di hipster affacciata sul fiume Willamette, le cui strade hanno dato il nome a molti personaggi dei Simpson, da Lovejoy a Millhouse.
Le proteste sono state per lo più pacifiche come in tutte le città americane, ma a Portland – dove i manifestanti sono riusciti più volte a bloccare l’autostrada causando disagi per il traffico – ci sono stati negli ultimi due giorni attacchi di un centinaio di anarchici contro i negozi del centro. Nella notte di venerdì, sul ponte Morrison, un manifestante ha avuto un diverbio con un giovane automobilista afroamericano, che ha sparato sei colpi ferendolo alla gamba (è finito in ospedale, ma non è in pericolo di vita).
«Cose del genere qui non succedono mai», ci dice Scott Caverhill, manager del Concessionario Toyota, mostrandoci una dozzina di auto con i vetri rotti, colpite con i mattoni dai manifestanti giovedì scorso. Impiegati e clienti si sono chiusi dentro quando hanno visto la folla passare, spiegano Caverhill e il suo capo Dea Williams. Sono amici e parlano spesso di politica. Il primo in realtà è uno dei rari elettori di Trump in questa città (confessa di venire dall’Idaho), il secondo ha votato per Clinton e teme che con i repubblicani al potere «perderemo tutto quello per cui abbiamo lottato, a partire dalle nozze gay». Entrambi, comunque, con una scrollata di spalle bonaria, perdonano le sommosse: «Anche io vado alle proteste, la colpa è di pochi anarchici e poi una signora li ha provocati gettando su di loro del detersivo», dice Williams. «Tra un paio di settimane passerà, e l’America tornerà unita», sostiene Caverhill. Trump ci conta, visto che dopo aver accusato i manifestanti di essere stati «incitati» dai media, venerdì ha cambiato tono: «Adoro queste piccole proteste, mostrano la passione per il nostro Paese».
«Negli anni a venire prepariamoci alla violenza, alla rabbia, a razzismo, misoginia, ora che i valori che ci univano sono stati distrutti», scriveva il commentatore californiano Neal Gabler in un «necrologio per l’America» ampiamente condiviso su Facebook dai liberal.
La pensa diversamente il tassista Hawk, veterano del Vietnam con un uncino al posto della mano destra e il tatuaggio di una zampa d’orso sulla sinistra, guida attraverso Pearl District, dove i danni ai negozi ammontano a un milione di dollari, tra grafiti sui muri e vetrine coperte da pannelli di legno come quella del negozio d’arredamento Casa Bella. «Sono orgoglioso dei manifestanti perché lottano per quello in cui credono – dice Hawk – mentre alcuni di noi, me incluso, sono stanchi di lottare. Ma dobbiamo trovare l’unità, come dopo l’11 settembre. La rabbia di chi ha eletto Trump e la nostra sono diverse, ma vogliamo tutti le stesse cose: la sicurezza dei nostri figli, sentirci felici, avere uno scopo».
«Sono addolorato dall’elezione di Trump. Ma questo non significa che l’America sia finita», ha detto il sindaco Charlie Hales a un incontro con i manifestanti. Qui lo chiamano «heal in», una sorta di sit-in per guarire dal trauma. Gregory McKelvey, 23 anni, uno degli organizzatori della protesta, ha condannato gli atti di vandalismo, ma ha spiegato: «Capisco gli inconvenienti per gli automobilisti, ma pensate agli inconvenienti per i gay, gli ispanici, i musulmani nell’America di Trump». Il suo coetaneo Armeano Lewis invece difendeva le sommosse: «Hanno attirato l’attenzione mondiale su Portland, così inizia il dialogo sulla resistenza». Alla fine, la polizia ha usato lacrimogeni e bombe sonore.
Passerà? Secondo Solomon Raio, etiope israeliano, la gente dovrà accettare il risultato. «Ma sarà difficile. Anche contro Bush ci furono proteste, e quando la stampa gli chiese se voleva tornare a Portland, lui rispose: “È violenta come Beirut”». Al concessionario Toyota, c’è una montagna di ciambelle e muffin portati dai vicini in segno di solidarietà. Qui a Portland sono salutisti, preferiscono le barrette di cereali, ma di questi tempi un po’ di zucchero non guasta.