Libero, 12 novembre 2016
«Bavaglio a Rosa e Olindo per nascondere la verità»
L’opinione pubblica può sposare l’una o l’altra tesi, ma esiste un fatto oggettivo: quello relativo alla strage di Erba è stato “un processo condizionato”. E riguarda tutti. Perché quando viene leso un diritto fondamentale, ne scaturisce un danno per la società. Si crea un precedente. Si legittima un abuso. Ecco perché gli avvocati della difesa, Fabio Schembri, Luisa Bordeaux e da Nico D’Ascola, hanno presentato ricorso alla Corte europea dei diritti dell’uomo, pendente da qualche anno, perché i diritti della difesa sono stati in parte negati ad Olindo Romano e Rosa Bazzi, accusati della strage di Erba.
Un esempio su tutti è costituito dalla non ammissione in dibattimen-
to di circa 70 testi della difesa. Ma da chi o da
cosa il processo è stato condizionato? Chi è l’autore di questo crimi-
ne alla giustizia? Sem-
bra che si sia trattato di
un concorso di più sog-
getti che hanno agito, ciascuno mosso dal pro-
prio interesse, qualcu-
no persino in buonafe-
de, affinché si conver-
gesse tutti su una stessa unica ed indiscutibile “verità”.
Ciò che stupisce è la facilità con cui tutto questo è avvenuto. Del resto, “condizionabili” erano gli stessi imputati, che vengono prelevati da casa, portati in carcere, dove gli viene detto che non c’è più nulla da fare. Così, da un lato, i due subiscono una pressione fortissima; dall’altro, vengono usate delle modalità non ammesse: viene negata loro la possibilità di contare sulla presenza del proprio avvocato, ma si ammette la presenza, alquanto ambigua perché contraria ad ogni regola, di due carabinieri, che entrano in carcere il 10 gennaio (due giorni dopo l’arresto dei Romano).
«La motivazione ufficiale è che questi avrebbero dovuto prendere le impronte digitali spiega l’avvocato, di nuovo, sebbene fossero già state prese. La versione nota all’inizio è che si trattengono con Olindo qualche minuto, solo in dibattimento si scopre che restano con lui dalle 10 del mattino fino a mezzanotte». È questo il giorno in cui Olindo decide di confessare gli omicidi, raccontando fatti che non combaciano con elementi riscontrati sulla scena del crimine. “Fantasiosa e delirante” risulta soprattutto la versione di Rosa. E sarà sempre un carabiniere di Erba, Luciano Gallorini zelo, a chiedere a Mario Frigerio se colui che lo ha assalito possa essere stato Olindo, sebbene l’uomo abbia già fornito un identikit del killer che è l’esatta antitesi del Romano.
“Condizionata” fu anche la stampa, che a sua volta condizionò l’opinione pubblica la cui condanna non lasciò scampo agli imputati. “Condizionati”, ma non condizionabili furono anche loro: gli avvocati. «Sia noi che i nostri consulenti abbiamo ricevuto diverse pressioni», dichiara Schembri. Da chi? «Non dalla gente comune». Sembra che ci sia dell’altro. Chi può avere avuto un interesse tale da ostacolare la difesa persino attraverso l’uso dell’intimidazione?
«Le risponderò con le parole del giornalista Giuseppe Rinaldi che nel programma Porta a Porta dichiarò che, dopo la prima puntata di quattro dello speciale sulla strage di Erba, Chi l’ha visto decise di non mandare in onda le altre tre a causa di forti pressioni che subì non da parte della commissione di vigilanza ma da parte di ben altri poteri».
Ma chi può essere interessato al fatto che i Romano marciscano in carcere a vita? «Io non credo nei complotti, le cose sono più semplici», commenta Schembri. E la risposta più semplice per noi è una sola: i veri colpevoli. «In questo caso è mancato il coraggio», continua l’avvocato. Ma il coraggio di fare cosa? «Quello di guardare le cose per come devono essere viste, senza partire dal pregiudizio».
«Una storia anomala», così Schembri definisce il caso Erba. Perché non ci si spiega per quale ragione continui ad essere negata sia a Rosa che ad Olindo la possibilità di incontrare i giornalisti, nonostante la sentenza in giudicato. Se errore ci fu, forse sarebbe il caso di partire dal principio.
All’indomani dei fatti erano due le piste da seguire. «Quella del regolamento di conti, essendo Azouz Marzouk, marito di Raffaella Castagna e padre di Youssef, invischiato nel giro dello spaccio di droga, e quella familiare, legata alla famiglia di Raffaella», dice il legale. E «la stessa casa in cui è avvenuto il delitto era già attenzionata da parte della guardia di finanza di Erba perché da lì partiva lo spaccio, anche quando Azouz si trovava in carcere».
Stupisce che gli inquirenti sospettassero proprio la famiglia Castagna, che aveva riportato tre morti dalla strage. Il delitto maturato in famiglia. Sembra quasi un cliché, una strada obbligata da intraprendere davanti ad ogni omicidio. Ma non erano pochi gli elementi che spinsero gli inquirenti su questa pista: chi è entrato in casa probabilmente aveva le chiavi, frequentava la casa, secondo la testimonianza dei siriani che abitavano sotto, qualcuno era in casa già prima dell’arrivo delle vittime. In famiglia, inoltre, i rapporti non erano dei migliori da quando Raffaella aveva sposato Azouz. Scelta che aveva comportato un ridimensionamento del tenore di vita a cui era abituata, appartenendo ad una famiglia di facoltosi mobilieri. Negli atti risulta che la giovane aveva chiesto alla famiglia la sua parte di patrimonio per trasferirsi in Tunisia con Azouz e il figlio ed aprire un centro turistico. Il trasferimento sarebbe dovuto avvenire un mese dopo la strage.
L’abitante di un palazzo di via Diaz nonché un tunisino fermo in piazza Mercato, quella stessa sera notano due extracomunitari tra la via e la piazza, raggiunti, mentre l’appartamento di Raffaella bruciava, da un uomo con un cappotto lungo e un cappello. Il tunisino, di cui poi si sono perse le tracce, riconoscerà quell’uomo tra le persone presenti presso il comando dei carabinieri, indicandolo come uno dei fratelli di Raffaella. Fu la fatalità quella tragica notte a fare aumentare il numero delle vittime designate? È certo che Valeria Cherubini, moglie di Frigerio, è stata uccisa in quanto testimone scomoda. Ma forse anche Paola Galli, madre di Raffaella, si trovava lì per fatale errore.
Nonna Paola si occupava di Youssef quando sua figlia era al lavoro. Ma la sua, questa volta, sembra una fuga: lascia a casa sua borsa e cellulare, guida in ciabatte, lascia la portiera della sua macchina spalancata nel cortile di via Diaz. Stavolta non consegna il bambino alla madre sotto casa. Questa volta sembra correre dalla figlia. Precipitarsi nel suo appartamento. Forse sa che Raffaella è in pericolo?
«Io ho sviluppato una mia idea, ma posso dire solo che è ridicolo credere che per una banale lite di condominio venga pianificata una strage di questa portata». Oggi in carcere «Rosa fa la sarta, Olindo cura un orto. Lui ha fatto richiesta per essere trasferito dal carcere di Opera a quello di Bollate, dove vive lei, ma non ha ottenuto risposta positiva ed è confinato nel reparto di infermeria perché non gli è stata trovata altra collocazione. Tuttavia quello del carcere costituisce per loro un mondo ovattato, lì si sentono protetti rispetto ad un mondo esterno ostile che non gli perdona quei crimini che non hanno commesso». E forse una colpa per la quale loro stanno pagando tanto duramente c’è: sono colpevoli di innocenza.