La Lettura, 13 novembre 2016
Scusi, ha il bruno di mummia?
Mimmo Paladino lo ha definito «viaggiatore di alchimie». Perché soltanto lui riesce a creare quelle straordinarie miscele di pigmenti che permettono agli artisti di realizzare i loro capolavori sulla tela. Nella sua bottega romana all’angolo tra via del Gesù e via del Pie’ di Marmo, a due passi dal Pantheon, Domenico Mancini, detto Memmo, ha visto transitare i giganti del Novecento: Morandi e de Chirico, Balthus e Dalí, Capogrossi e Turcato, Cy Twombly e Andy Warhol, Franco Angeli e Mario Schifano, Folon e Guttuso. E poi ancora: Rauschenberg e Jim Dine, Edith Schloss e Beverly Pepper, Toti Scialoja e Titina Maselli, Enrico Castellani e Tano Festa…
Oggi, superata la settantina, Memmo continua a dispensare colori e consigli ai pittori che arrivano qui da tutto il mondo e lo chiamano «maestro».
Fa venire in mente la leggenda del maestro coloraio cinese che, rinchiuso dall’imperatore in una cella sotterranea, si fabbricò un carboncino con i legni bruciati e con questo dipinse una porta sulla parete della cella. Quando la mattina arrivarono le guardie, non trovarono più nessuno, soltanto il disegno della porta. La mesticheria porta ancora il nome di Ettore Poggi, che la rifondò nel 1825, ma esisteva già al tempo di Caravaggio e ora è l’unica coloreria antica rimasta a Roma.
Memmo lavora qui dal 1959, quando entrò come garzone di bottega. Veniva da un forno di viale Trastevere, dove aveva cominciato a lavorare a dodici anni. «Lì – racconta a “la Lettura” – ho conosciuto Pasolini. Passava tutte le mattine all’alba, rientrando dai suoi giri notturni e comprava le ciriole fragranti. Dalla panetteria al negozio di colori il passo è stato breve. Mi piaceva lavorare con la farina, e l’impasto dei pigmenti in fondo è simile. Così sono venuto a fare il garzone alla Ditta Poggi e qui ho conosciuto Guttuso, che nei primi anni Sessanta mi ha presentato a Balthus, che a quel tempo dirigeva l’Accademia di Francia. Balthus mi volle come assistente e ogni mattina lo raggiungevo a Villa Medici, dove lavorava ai famosi quadri con le bambine. Era raffinato e altero. Possedeva il segreto di legare le polveri agli smalti. Conosceva bene anche la pittura del Quattrocento e i materiali dell’epoca, che gli permettevano di lavorare con grande lentezza. Sapeva mescolare le terre italiane – terra d’ombra, terra di Siena – con la caseina e il carbonato di calcio. Io gli macinavo i colori, gli preparavo le tele con la prima mano di fondo. Le voleva di canapa, al contrario della maggioranza degli artisti che preferiscono il lino. Qualche volta mi affidava missioni impossibili».
Balthus chiedeva la fritta di Alessandria, chiamata anche blu egiziano, che esisteva già nel terzo millennio avanti Cristo – la sua scoperta era avvenuta insieme a quella del vetro: si otteneva con quantità variabili di quarzo o sabbia silicea, carbonati di calcio e rame, eventualmente con l’aggiunta di fondenti alcalini. Ma la dose corretta di questi ingredienti si era persa al tempo dei Romani e per secoli i ricercatori hanno tentato di riprodurre la ricetta con scarsi successi. Oggi il colore che più si avvicina alla fritta è il blu Ercolano.
«Quanto costa il bruno di mummia?», gli domandò un giorno Balthus. Memmo pensò a uno scherzo. «Almeno dieci milioni, mi tocca andare in Egitto a cercarlo», rispose. Invece poi scoprì che l’artista diceva sul serio. «In un vecchio libro sui pigmenti ho trovato che si trattava di una sostanza scura, che si faceva nell’Ottocento macinando i resti di antichi defunti egizi e le resine che li ricoprivano, e impastandoli con l’olio di lino. Molto amato dai pittori inglesi di epoca vittoriana, fu usato anche da Alma-Tadema, che inorridì quando ne individuò l’origine e insieme a Edward Burne-Jones seppellì in giardino il tubetto con il pigmento, celebrando una specie di inumazione».
Memmo gli fornì il bruno di mummia attuale, composto di bitume giudaico e argilla, usato ampiamente da Balthus per dipingere le gore di buio da cui emergono le sue fanciulle perverse. Continuò a lavorare per l’artista anche dopo il suo ritorno in Svizzera: «Mi mandava l’elenco dei colori che gli servivano e io caricavo la macchina e lo raggiungevo. Diventando vecchio cominciò a immaginare tele sempre più grandi. Una volta mi chiese di preparargliene alcune alla maniera di Jacques-Louis David, che imprimeva le tele con rosso di Pozzuoli o rosso di Venezia, niente di più semplice. Un’altra volta, vedendo che le forze lo abbandonavano, gli feci costruire da un falegname un cavalletto che si alzava e si abbassava schiacciando semplicemente un bottone. Così poteva lavorare con meno fatica. Ne fu felice. L’ultima telefonata me la fece dalla clinica, poco prima di morire, per salutarmi».
Nel dopoguerra erano arrivati a frotte gli artisti americani. La prima settimana la passavano a letto, con una strana febbre alta che chiamavano the Roman fever, attribuendola al clima malarico, all’acqua non salubre e alla mancanza d’igiene. Prendevano casa in centro, intorno alla bottega Poggi. Memmo ricorda Cy Twombly, che faceva i quadri con la cementite, un materiale povero che asciugava in fretta e su cui interveniva con matite grasse per lasciare i suoi segni. «La spalmava sulle tele del Belgio, alte tre metri, lunghe dieci. Le voleva intere, poi le tagliava a lavoro finito. Gliele consegnavo nell’appartamento di un pittore cinese, Jimmy Leong. Un piano intero, con un lungo corridoio che portava a tante grandi stanze subaffittate come studi agli americani. C’era un profumo straordinario di pittura a olio, di smalti».
C’erano pittori che cercavano il bianco di ossa e di marmo, il bianco d’uovo, la malta romana, l’impasto che gli antichi facevano per tenere su i muri e Michelangelo ricreò per l’intonaco della Sistina. «È un materiale naturale, che resiste per secoli. Come legante nell’impasto una volta ci mettevano anche i fichi, insieme alla calce pura e alla pozzolana, per farlo diventare indistruttibile. A Roma c’è un detto: fai come l’antichi, magna le cocce e butta via i fichi».
De Chirico acquistava i pigmenti già macinati, che impastava da solo con olio di papavero e ditargilio, un essiccante in polvere. Chiedeva il giallo indiano, «un pigmento antico che in origine veniva dall’India, composto di terra bagnata con l’urina delle vacche nutrite con foglie di mango». Salvador Dalí incaricava Memmo degli impasti, ma dovevano esser fatti con essenza di lavanda. «Ne veniva fuori una pasta cromatica morbida, coprente, meravigliosamente setosa». Quando scendeva a Roma, passava in coloreria Giorgio Morandi. «Alloggiava qui dietro, all’albergo Santa Chiara, insieme con Gnudi, un professore di Bologna». Ordinava i pennelli di puzzola, corti e piatti, il rosso di robbia, la terra di Siena bruciata, il bianco d’argento. E grandi quantità di terra d’ombra naturale che mescolava al verde smeraldo, al cobalto azzurro, al blu d’oltremare, alla lacca di garanza, per smorzarne le tonalità brillanti. La terra d’ombra aveva la stessa funzione della polvere che l’artista lasciava depositare sulle sue composizioni di vasi e bottiglie per appannarle.
Per Mario Schifano, che «amava gli smalti francesi, come quelli che usava Picasso», e voleva lavorare su supporti fotografici, Memmo preparò le tele emulsionate e certe paste che acquistavano trasparenza con la luce. «Aveva solo dieci anni più di me ed eravamo come fratelli. Sperimentavamo insieme: acquerelli, inchiostri, smalti a base di anilina. Niente andava bene. Alla fine provammo gli smalti industriali usati dai carrozzieri: rosso Guzzi, rosso Gilera, verde Vittoria, blu Fiat. Perfetti». Con gli stessi smalti in bombolette spray, Memmo preparava i velatini per Franco Angeli. Acquistava metri di calicò, un tessuto molto trasparente, lo appendeva al filo con le mollette e vi spruzzava sopra il colore. A Giulio Turcato procurava perline catarifrangenti, brillantine e colori cangianti fluorescenti. Con questi pittori della nuova generazione Memmo era diventato amico. E con loro conobbe scrittori, registi, scenografi, galleristi, musicisti. La domenica giocava a carte da Guttuso a Palazzo del Grillo, bevendo whisky e poi, per rinfrescarsi, il tamarindo Erba. Quell’anno, era il 1974, i mondiali di calcio li seguì nell’appartamento di Gore Vidal, insieme con gli attori del Living Theatre. Una volta aiutò un pittore, che si chiamava Alberto Sartoris ma era solo un omonimo del celebre architetto, a portare su per le scale di Palazzo Doria Pamphilj, fino a casa del surrealista Eugène Berman, Igor Stravinsky in carrozzina. «Era vecchio, non camminava più e l’abbiamo trasportato a forza di braccia. Aveva due occhi enormi che giravano continuamente e sembravano le ruote di un carretto».