Corriere della Sera, 12 novembre 2016
«Io, che vivo con gli inuit per difendere i loro diritti»
«Nella vita di ognuno, come nei passaggi delle civiltà, ci sono i giorni di tempesta. All’improvviso il vento si alza, si porta via qualcosa e crea lo spazio per altro. È la tempesta che decide: un popolo si estingue, un’era si chiude, una teoria politica fallisce. Sul ghiaccio ho imparato che per andare avanti, l’errore da non commettere è provare a dominare la tempesta, illudersi di essere più forti degli snodi cruciali che misteriosamente indirizzano il mondo». Robert Peroni ha 72 anni, è nato in Sudtirolo, è stato un esploratore e un alpinista di livello internazionale, conteso dagli sponsor. Da trentasei anni ha fatto di più: ha scelto di vivere con gli inuit, in Groenlandia, diventando il paladino dei loro diritti. «Qui ho imparato la resistenza – dice – la forza prodigiosa dell’attesa. Gli sconfitti, se trovano il coraggio di non rinunciare ai valori che li animano, scoprono infine di essere i vincitori. Succede quando si punta ad una vetta, ma anche quando si cerca di governare i cambiamenti che ci travolgono». Con le spedizioni ha chiuso. A Tasiilaq ha aperto la Casa Rossa, ospitando gli inuit esclusi dallo stile di vita contemporaneo. Ora lavora ad una cucina riservata ai vecchi cacciatori eschimesi: senza prede, privati di un ruolo sulla terra, rischiano di morire di fame. Sabato 19 novembre, nel museo di scienze naturali di Milano, verrà presentato
In quei giorni di tempesta,
il libro che ha dedicato alla fine ignorata dell’ultimo popolo dei grandi cacciatori, i suoi amici.
Perché pensa che da un remoto villaggio groenlandese ci si possa chiarire le idee sugli effetti percepibili della globalizzazione? «Io racconto la tempesta del secolo, che in Groenlandia ha deciso il destino degli inuit. Avevano sempre resistito al vento gelido nascondendosi sotto terra, al caldo. Poi i danesi li hanno messi in case di legno, imponendo la nostra civiltà. Alle prime raffiche, il villaggio è stato spazzato via. Non si sono più fidati di noi bianchi, ancora si chiedono perché non si sono opposti ad una colonizzazione spietata. Mi pare che ognuno di noi oggi sia preda di qualcuno di ignoto che gli ordina come deve sconvolgere la propria vita per non risultare espulso dal sistema unico e globale. Siamo diventati tutti inuit, primitivi logorati dal senso di colpa della povertà, dell’ignoranza, o dell’inadeguatezza rispetto alla complessità veloce del pianeta».
Crede che senza quelle che lei chiama “tempeste” gli inuit avrebbero potuto continuare a essere cacciatori, o l’Occidente a dettare le regole della civiltà?
«No, anche in queste ore dobbiamo prendere atto che le epoche si chiudono e che c’è sempre qualcuno più forte di te. Il punto però è che anche una minoranza può continuare ad avere ragione. I cacciatori inuit sono stati spinti nel baratro della disperazione perché hanno accettato l’idea, affermata da noi, che nutrirsi di foche fosse sbagliato. Europa e Usa tramontano perché si convincono che l’umanità sia una debolezza».
Perché è lei, un esploratore bianco, a scrivere la storia del popolo groenlandese?
«Perché loro non hanno ancora il coraggio di farlo. Una civiltà secolare, fondata sulla libertà, è stata annientata in pochi decenni. Vedono gli iceberg che si sciolgono, i fiordi senza narvali, il pack senza orsi bianchi. Non hanno più pesce per i cani da slitta. Sono schiavi, mantenuti da chi li distrugge per morire senza fare nulla. Io mi limito a raccontare la tragedia inuit restituendo a loro la parola, perché ci spieghino ciò che tutti stiamo diventando».
Vuole dire che al Polo Nord, come in Europa, sarebbe meno doloroso rifiutare il futuro e aggrapparsi al passato?
«No, ma io sono uno sconfitto, come loro. Li avevo convinti a restare cacciatori, organizzati in clan famigliari. Dopo la tempesta, in un universo nuovo, si sono sentiti traditi anche da me. Il problema però non è il futuro, ma il ponte da attraversare per raggiungerlo. Dobbiamo trovare un modo giusto per andarci tutti e insieme, senza annullare le persone e distruggere il pianeta».
Lei parla di neve e di sciamani, di innocenza e di bellezza, della fine delle spedizioni e del prezzo dell’ambizione, di turismo distruttivo e di proselitismo religioso: come possono incontrarsi, popoli, fedi e civiltà, senza annullarsi?
«Migrazioni e muri ci indicano la strada del rispetto e del controllo della presunzione. In Groenlandia, per sopravvivere, si devono fare domande. Ho chiesto a un cacciatore perché si fosse costruito una casa grande. Mi ha risposto “per distendere le gambe”. Il parroco cristiano del mio villaggio mi ha detto che per lui anche dio è uno sciamano, una presenza che dà una mano a sopravvivere. Quando si incontrano, gli inuit non si baciano, si annusano per sentire che odore ha l’anima dell’altro. La “tempesta del secolo” si supera solo accettando il vento degli altri, il fatto che più dimensioni possono convivere con pari dignità».
Fuggire nelle ultime terre originarie va di moda. Intellettuali, esploratori o manager logorati dalla crisi: da una distruzione nasce un’altra opportunità per la scoperta?
«Fuori lo spazio dell’avventura è esaurito. La Groenlandia torna un pezzo di ghiaccio. Gli orizzonti che si aprono sono interni, conoscere l’altro per accettare chi si è. Dopo tante distruzioni giungiamo alla grande avventura umana, all’esplorazione essenziale: soli davanti a Trump, o a ciò che resta di un inuit. Tutto è ancora da scoprire, ma a patto di tornare prima in comunione con l’universo».