La Stampa, 12 novembre 2016
«Mio padre mi voleva avvocato mi ha perdonato solo dopo l’Oscar». Intervista a Gabriele Salvatores
Portava i capelli lunghi fino alle spalle. E camminava dall’altro lato della strada. Non perchè era quello selvaggio, come cantava Lou Reed, ma perchè glielo chiedeva suo padre. Avvocato napoletano, conciliante e insieme determinato, che, davanti alla realtà di un figlio capellone, invece di opporsi, negoziava: «Tu fai quello che vuoi, però io mi vergogno e vado dall’altra parte». Fu in quel periodo, «dopo i primi due anni di giurisprudenza», che Gabriele Salvatores capì chiaramente che non avrebbe fatto il mestiere di suo padre: «Gli unici avvocati con cui sento di avere qualcosa in comune sono quello interpretato da Jack Nicholson in Easy rider e poi quello di Carlito’s way, con Al Pacino». Il cinema (in particolare i 5 film che ha scelto di presentare al prossimo Tff) e il teatro, a Milano, con quelli che poi resteranno gli amici di sempre, hanno segnato il destino di Salvatores. E chiuso, felicemente, il conto con un padre che oggi, nei racconti e nei ricordi, riappare spesso.
Come andò esattamente fra di voi?
«Una sera, dopo aver saputo che non avrei più studiato, mi chiamò e mi disse”puoi fare quello che vuoi, però devi farlo bene, se scegli di diventare idraulico, devi essere il migliore del quartiere”...Per lui la soddisfazione vera arrivò la notte in cui ho vinto l’Oscar per Mediterraneo. Non me lo ha mai detto, ma i suoi amici mi hanno raccontato che, la mattina dopo, arrivò in ufficio con una bottiglia di champagne: “Dobbiamo festeggiare, perchè mio figlio mi ha dato uno schiaffo in faccia”».
Per lei, invece, quell’Oscar che cosa ha rappresentato?
«Mi ha molto condizionato. Andare a Hollywood era stato un po’ come se fossi volato nell’Impero del male, a ricevere un premio dalle mani di Dart Fener... e poi, non per fare il buonista o il modesto, ma nella cinquina c’era Lanterne rosse che a me piaceva tanto, lo trovavo più bello e più interessante... Mediterraneo è un film rotondo, piacevole, ma, secondo me, non è il mio film migliore».
E quindi?
«Quindi se prendi un premio pensando di non meritarlo fino in fondo, maturi quasi un complesso di colpa, pensi che hai avuto una botta di fortuna e devi restituire qualcosa...».
Dopo l’Oscar vennero,Sud, Puerto Escondidoe poiNirvana, in cui lei, in grande anticipo sui tempi, affrontava il tema del web e dei suoi pericoli.
«Quando parlai dell’argomento a Cecchi Gori mi guardò sconvolto, pensando “questo è pazzo”...Potevo fare tutto, gli americani mi avevano proposto un remake di Mediterraneo ambientato in un’isola giapponese con soldati Usa, e anche Il mandolino del Capitano Corelli che poi fece Nicolas Cage. Io, invece, ero deciso a cambiare tutto, fare qualcosa di nuovo».
Che significava per lei, in quella fase, l’evoluzione di Internet?
«Avevo iniziato a pensarci già con due spettacoli dell’Elfo. Appena nato, Internet rappresentava lo spazio libero, la grande utopia rivoluzionaria, ma poi, già nel ’96, si cominciò a capire che il sistema stava recuperando terreno, trasformando la rete, da una parte, in uno strumento di controllo, dall’altra in un supermercato dove vendere tutto...e poi iniziavano a venir fuori le domande, come quelle che faceva Diego (n.d.r Abatantuono) quando con Fabrizio (n.d.r Bentivoglio) finivamo di giocare a calcio col Nintendo e lui si chiedeva “ma gli omini adesso dove se ne vanno? Tornano a casa loro?”».
Ha citato gli amici, stavo per chiederle perchè l’amicizia virile ha avuto un ruolo così importante nella sua vita e nel suo cinema?
«L’ho raccontata molto perchè la conoscevo bene, anche se io, senza il femminile, inteso come sguardo e come mondo, non potrei vivere...certo, le differenze ci sono, voi, quando vi incontrate, avete un modo di comunicare più profondo, più sottile, magari non immediatamente sincero come il nostro...tra maschi, invece, ci si cala subito le braghe».
E poi c’è il problema del confronto e della rivalità. Tra i 5 titoli di cui parlerà a Torino c’èJules e Jime lei stesso ha raccontato inTurnèla storia di una donna amata da due amici.
«Sì, ai tempi di Turnè Fabrizio Bentivoglio e Francesca Marciano stavano vivendo storie sentimentali un po’ intrecciate, e anch’io stavo con Rita (n.d.r. Rabassini) che si era appena separata da Diego, insomma erano argomenti che in quel momento sentivamo molto vicini».
Due dei suoi film del cuore,IfeFragole e sangue, ruotano intorno al tema della ribellione. Che cosa resta, oggi, di quelle idee?
«In quei film c’erano discorsi importanti, c’era la tensione verso il sogno che sarebbe poi diventato la tavola da surf per affrontare i mari e le tempeste che sono seguite. Oggi i rapporti di potere non sono cambiati, e la ribellione è servita, per continuare a sognare, e soprattutto per pensare che quello che fai possa contribuire a cambiare qualcosa del mondo in cui viviamo».
Un mondo in cui succede che Trump diventi presidente Usa... A proposito, come mai non è andato con Renzi a salutare Obama?
«Non mi hanno invitato, e comunque non sarei andato perchè stavo girando. Però Paolo Sorrentino, che mi è molto simpatico, mi ha fatto racconti divertentissimi, ha detto “è stata una cosa faticosissima, che non farò mai più”. Mi ha spiegato che ti mettono in fila, sotto i tendoni, con migliaia di persone...Quella di Trump è invece una notizia che mi ha provocato rabbia e depressione..».
Eppure lei è buddista, religione che promuove la distanza da certe ansie terrene...
«In verità, venendo fuori ora da quasi 6 anni di psicanalisi freudiana, mi sento meno sognatore e più attaccato alla realtà. La cosa di cui resto convinto è invece la re-incarnazione, mi piace l’idea che la nostra vita sia un percorso che poi ricomincia in un altro corpo. Al contrario non credo affatto nella vita eterna, il paradiso e l’inferno li stiamo vivendo già adesso, sulla terra».
Insomma, alla fine è contento di non aver fatto l’avvocato?
«Sì, non credo proprio che ci sarei riuscito, non sono un gran polemista e non ho pelo sullo stomaco».