12 novembre 2016
In morte di Leonard Cohen
Andrea Laffranchi per il Corriere della Sera
L’idea della morte non lo spaventava. «Sono pronto, Signore», cantava con quella voce così profonda che scavava nelle viscere dell’anima, in «You Want It Darker», la title track del suo ultimo album. Adesso che Leonard Cohen è morto, quelle parole sono più di un testamento artistico. «Abbiamo perso uno dei più riveriti e prolifici visionari della musica», annunciava giovedì notte il suo profilo Facebook. «Mio padre se ne è andato in pace nella sua casa di Los Angeles sapendo di aver completato quello che sentiva essere di uno dei suoi migliori album», ha detto il figlio Adam.
La morte risalirebbe a lunedì ma nulla si sa delle cause. Il cantautore canadese aveva 82 anni e ci era apparso in gran forma il mese scorso a Los Angeles alla presentazione del suo ultimo lavoro. Il solo indizio dell’età era il bastone cui si appoggiava. Per il resto era stato tutto sorrisi e battute. Anche su quel suo sentirsi «pronto»: «Ho esagerato. Ho intenzione di vivere per sempre». Il pensiero della fine tornava spesso. Quest’estate, saputo delle gravi condizioni di salute di Marianne Ihlen, la musa di «So Long, Marianne» e «Bird on a Wire», le aveva scritto una lettera: «I nostri corpi stanno cadendo a pezzi e penso che a breve ti seguirò». Lei se ne è andata e lui ha rispettato l’appuntamento.
In molti hanno omaggiato l’autore di «Hallelujah»: colleghi come Elton John, Justin Timberlake e Slash; attori come Russell Crowe; il premier candese Trudeau e quello israeliano Netanyahu che ha ricordato i suoi concerti per i soldati durante la guerra del Kippur.
È stato il poeta della vita, anzi del lato oscuro della vita: peccato e riscatto, amore e morte, sesso e spiritualità (e anche politica più raramente) e la costante presenza del senso di mortalità, che fosse il suicidio di «Seem So Long Ago Nancy» (‘69) o il «non ho futuro» di «The Darkness» (2012). Poeta perché ogni parola aveva un senso. E perché quello era stato il suo esordio. Nato il 21 settembre 1934 a Westmount, in Quebec, da una famiglia ebraica, si era potuto dedicare all’arte grazie a un tesoretto ereditato dal padre. Nonostante l’accoglienza della critica per le sue prime raccolte, mollò la poesia che non gli dava stabilità economica per la musica. Nel 1966 «Suzanne», metafore bibliche e amore, divenne un successo grazie a Judy Collins. E l’anno successivo fece da colonna portante, assieme a «So Long, Marianne», del suo debutto, «Songs of Leonard Cohen». Lo stile di quel disco, voce profonda, prevalenza di suoni acustici, temi dark, si confermò in «Songs from a Room» (‘69) e «Songs of Love and Hate» (‘71) e ne fece uno dei padri nobili del cantautorato. Nonostante questo non ha mai vinto un Grammy, se non quello simbolico alla carriera. E anche per il Nobel gli è stato preferito Dylan. «Come dare la medaglia per la montagna più alta all’Everest», aveva commentato con classe.
Negli anni 80 la sua popolarità calò. Tanto che la sua casa discografica non si accorse di quella perla di «Hallelujah» e decise di non pubblicare l’album negli Usa. Ci vollero un decennio e la cover di Jeff Buckley per farne un classico fin troppo sfruttato da cinema, serie tv, pubblicità, cantanti e funerali a corto di idee.
Quel suo aspetto elegante, la posa da intellettuale bohémien e gli abiti dal taglio sartoriale nascondevano uno stile di vita rock and roll: alcol, droga e donne. A metà anni 90 si ritirò in un centro buddista a Los Angeles per combattere la depressione. Divenne monaco, uscì dopo 5 anni, pubblicò un paio di album quando la figlia Lorca scoprì che la manager lo aveva truffato prosciugandogli il conto in banca. Fece gli straordinari: quasi 400 concerti dal 2008 al 2013. Sul palco c’era un piccolo signore, abito scuro e cappello, pronto a inginocchiarsi davanti alla platea. Chapeau, mr. Cohen.
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Giuseppe Videtti per la Repubblica
Era preparato. Attrezzato, come si dice in psicoanalisi. Leonard Cohen, cantautore, poeta e narratore canadese morto a Los Angeles a 82 anni il 7 novembre (la notizia è stata data solo ieri), se n’è andato con un corredo funebre perfettamente in ordine. Ricco di parole e note scarne, ma non meno splendente del tesoro di Tutankhamon. Il “dirge” era già stato intonato dalla voce di un rabbino in You want it darker — l’album d’addio che aveva presentato al pubblico poche settimane fa, con il distacco e la serenità di sempre — senza lasciar intendere che quelle parole di serena accettazione («Sono qui, mio Signore, sono pronto») fossero solo dettate dalla consapevolezza dell’impermanenza, ma anche dalla certezza di un’imminente dipartita. Non era difficile indovinarlo, il vecchio Leonard citava le scritture e chiamava intorno a sé la famiglia (il figlio Adam in veste di produttore), un estremo ricorso all’infanzia e agli affetti prima di dire addio. Ci eravamo aggrappati a quella voce immacolata, rassicurante, per niente screpolata dagli anni e dalla malattia, saggia e autorevole, per scongiurare il pensiero che lui, come Bowie, si stesse congedando dal mondo usando l’arte come viatico per l’aldilà — David sfidando con Black star l’oscuro terrore dell’inconosciuto, Leonard accarezzando la certezza di un nuovo inizio.
Seducente fino alla fine, anche se Borsalino e gessato avevano preso il posto di jeans e dolcevita con cui l’espatriato scese al Chelsea Hotel in quegli anni Sessanta in cui Suzanne, Bird on a wire e Famous blue raincoat diventarono il passepartout di una generazione che venerava i beatnik senza averli conosciuti e di una schiera d’interpreti (da Judy Collins a Nina Simone) a caccia di canzoni potenti. Trattava angosce, turbolenze, fragilità, paure e paranoie con la stessa sublime delicatezza con cui gli veniva di raccontare lo stupore indifeso del maschio nel momento dell’orgasmo ( Dance me to the end of love) o la crudeltà della malattia che aggredisce la virilità (“I ache in the places where I used to play”, “ Ho dolore in quei posti che mi davano piacere”, cantava alludendo ai problemi di prostata in Tower of song); la stessa grazia con la quale fece convivere mitologia e pansessualità nel romanzo Belli e perdenti. Non gli venne mai di predicare contro i padroni della guerra, dava per scontata la ferocia degli umani; preferiva concentrarsi sulle sue battaglie, sui demoni che esorcizzava in solitudine: da giovane nell’isola di Hydra, in Grecia; in maturità nel monastero buddista di Mt. Baldy, cento miglia da Los Angeles, dove si ritirò nel 1993 per otto anni. Lo scovai lì, nel 1997, quel giorno di settembre in cui il terremoto fece tremare Assisi. In montagna era già freddo, mi accolse nell’umile cella, rasato, infradito ai piedi, vestito da monaco. «Sicuro che vuol restare per la notte? Dovrà dormire sulla mia stuoia, tanto io sarò di là a vegliare Roshi, il mio maestro è malato. La chiamerò alle quattro per la meditazione del mattino», sussurrò prima di congedarsi con un inchino.
Il silenzio era d’obbligo, fu un’intervista sussurrata.
«Perché è venuto fin quassù? Babilonia non mi ha ancora dimenticato? », scherzò dopo la colazione a dir poco frugale, divertito dai crampi che mi tormentavano dopo troppe ore nella posizione del Buddha.
Avrei giurato che si sarebbe addormen-tato per sempre in quel silenzio irreale, niente più canzoni né poesie né sesso. Invece quattro anni dopo lo ritrovai a Milano, elegantissimo, una sigaretta via l’altra, profumato di Habit Rouge — il ritratto dell’ultimo Leonard Cohen — e in mano il disco del ritorno a Babilonia ( Ten new songs). «Come vede non era una vocazione duratura», disse. Ma You want it darker ci assicura che non aveva dimenticato le parole con le quali mi congedò quel giorno di settembre a Mt. Baldy. «Il vero amore è il coraggio dell’addio; la vera vita è inaugurata dalla morte». Sacrosanto. Ma a chi si è nutrito diCanzoni di amore e odio fa male pensare che se ne sia andato proprio ora che il Nobel non è più un miraggio.
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Giancarlo De Cataldo per la Repubblica
Quando, nel giugno scorso, morì Marianne, la bionda musa dei suoi furori giovanili, Leonard Cohen le promise che l’avrebbe presto raggiunta. Non gli credemmo. Pensammo: sono anni che Leonard ruota intorno al tema del “ritorno a Dio”, ma resterà con noi ancora a lungo. Non ci ha forse promesso un altro disco? E poi sappiamo com’è fatto. Le donne sono sempre stata la sua ossessione. Ha trovato il modo più poetico e gentile per ringraziare la compagna di un passato ricco di passione, il “suo” modo. D’altronde, non fu forse lui stesso a confessare, al suo biografo Ira Nadel, che tutto nasceva dalle donne? «Le donne. Le volevo, ma non potevo averle. Questo è il vero motivo per cui ho cominciato a scrivere poesie. Scrivevo note per le donne, per poterle avere. Loro le facevano circolare, e la gente le chiamava poesia. Quando non funzionava con le donne, mi rivolgevo a Dio». Una dichiarazione sincera. Cohen non mente quando delinea i due poli entro i quali si dipana la sua complessa produzione poetica, letteraria e musicale. Le donne e Dio. L’amor sacro e l’amor profano. La sensualità e la mistica. E, con il successo, il lacerante obbligo di coniugare la profondità di una continua, ininterrotta riflessione sui grandi temi dell’esistenza con gli splendori e le miserie dello show-biz. Da un lato, dunque, le donne, l’amore carnale. Donne che ne determineranno il destino, che amerà e tradirà, che lo rifiuteranno e tradiranno. Donne stregate e streghe, appassionate e bizzarre, cupe e fuggiasche, ma sempre presenti nella sua poesia. Donne che Cohen, ormai anziano, ringrazia in una splendida lirica: “Grazie ad alcune canzoni/ in cui parlavo del loro mistero/ le donne sono state/eccezionalmente gentili/con la mia vecchiaia/ creano uno spazio segreto/nelle loro vite ricche di impegni/e mi ci portano/lì stanno nude/ciascuna a modo suo/e dicono:/guardami, Leonard/ guardami per l’ultima volta/poi si curvano sopra il letto/e mi coprono/come un bambino che trema”.
“Suzanne” e altri brani nacquero come poesie Inutile creare distinzioni e mettere etichette
Dall’altro lato, Dio. Il Dio degli ebrei scampati alla Shoah, nella prima stagione poetica in cui sgomento e ironia si alternano, e traspare una singolare attrazione per la figura del Cristo. Il Dio dei due soli romanzi, ora beffardo ora assente. Il Dio che Cohen va a cercare dentro se stesso esiliandosi volontariamente in un monastero zen, salvo poi tornare in scena con una sigaretta e un goccio di whisky, pronto a risalire sulla giostra che ondeggia fra santità e perdizione. I due mondi che si ricongiungono in
Hallelujah, episodio poetico-musicale che ne ha consacrata la fama fra le giovani generazioni: perché non conta che sia sacro o profano, l’Hallelujah è comunque musica. Ed è musica, ad un tempo, dell’uomo e del Dio.
Donne e Dio, in musica e versi. Impossibile operare distinzioni per Cohen, l’interscambio è continuo.
Suzanne e tante altre sue canzoni sono nate come poesie. Impossibile creare distinzioni e mettere etichette: e se anche fosse, a che servirebbe? E infine, Cohen è tornato al Dio dei Padri. Non gli credemmo quando ci fece capire che per lui il gioco era alla fine, che era pronto. Forse rinfrancato, forse riconciliato, ma, c’è da giurarci, non domato. Come chi semina inquietudini che non sopportano scorciatoie.
In una delle sue ultime, bellissime, poesie in musica, Traveling light, si legge: “Viaggio leggero/è un au revoir/mia stella un tempo così luminosa/oggi caduta/sono soltanto/qualcuno che/ha detto basta/ al me e te”. Oggi per noi coheniani è un giorno triste. Ci consola sapere che le sue parole e la sua musica resteranno per sempre mentre lui viaggia leggero verso la luce.
Non è difficile immaginare come fosse realmente Leonard Cohen, basta aver visto e ascoltato uno dei suo album: vestito di grigio, o nero, molto cortese, voce dai toni bassi, frasi brevi e semplici per dire verità intime e spesso universali.
Lo incontrai per la prima volta nel 1992, quando lui a 58 anni aveva salutato il nuovo ordine mondiale con un album e una canzone intitolati The Future: «Ridatemi il Muro di Berlino, ridatemi Stalin e san Paolo, ho visto il futuro, fratello: è un massacro». Ero pronto a parlare di politica, della sensazione che si aveva a quel tempo, che la Storia si facesse sotto i nostri occhi, lui parlò di Apocalisse: «L’umanità sta per essere travolta, siamo ai giorni finali, è difficile per chiunque trovare un senso a ciò che fa, alla sua esistenza». Gli chiesi allora quando pensava fosse iniziato il «Futuro». Rispose: «Hai presente quelle pitture rupestri nelle grotte spagnole? Siamo sempre quelli, da allora non siamo cambiati poi granché».
Dopo quell’album, e il tour che ne seguì, Cohen salì in montagna, in un monastero zen, in California. Ci rimase quasi sei anni, tornò con un quintale di carta («Dentro c’erano canzoni per due album e un libro»). Nel 2001, a 67 anni, pubblicò l’album Ten New Songs e venne in Italia a parlarne. Era sempre molto elegante, vestito di nero, il tono di voce era ancor più basso, l’ironia era diventata autoironia: «Nessuno ti chiede di andare in profondità: le mie canzoni se ne stanno lì e galleggiano sulla superficie. Ma chi vuole, trova porte e finestre per entrare», mi disse. E spiegò come Roshi, il suo maestro zen, l’aveva cambiato: «Cucinavo per lui, ero il suo attendente. Lui non parla bene inglese, la conversazione era elementare, nessuna grande idea, nessun concetto complesso. Gli portavo la cena, lui diceva: “Questo ristorante buono”. Sono suo amico da trent’anni, nel 1993 pensai che fosse il momento di passare un po’ di tempo con lui. Sono andato nel suo monastero, gli sono stato vicino, poi, senza traumi, gli ho chiesto il permesso di tornare alla mia altra vita. Ho indossato l’abito del monaco ma non ho mai cercato una nuova religione, sono sempre stato felice della mia. Quella era la forma che il mio maestro aveva scelto: per studiare con lui era appropriata e direi naturale. Ma nello zen non c’è affermazione né negazione di Dio, e dunque non c’è mai stato alcun conflitto con la mia vecchia religione».
Parlammo di ispirazione e lui ripeté una delle sue frasi proverbiali: «Se sapessi dove nascono le belle canzoni, ci andrei più spesso»; del figlio musicista: «Gli hanno chiesto: è difficile essere figlio di Leonard Cohen? E lui: non saprei, Leonard Cohen è più che altro mio padre. Buona risposta»; di The Future: «Era un manifesto geopolitico demente, ciò che il cuore potrebbe scrivere se gli si chiedesse di scrivere un manifesto geopolitico. Lo rifarei? Ora sono pacificato». Tanto pacificato da concludere, con un sorriso: «Hanno scritto che ai miei concerti dovrebbero distribuire le lamette per chi si vuole tagliare le vene. Non hanno del tutto torto, a volte so essere deprimente».