Corriere della Sera, 12 novembre 2016
Il principe e l’operaio, due preti. La prefazione di Gian Antonio Stella all’ultimo libro di Luigi Maistrello
«A dio ciese, adio perpetue,/ adio nonzoli e conventi,/ adio decime e limosine,/ adio santa religion!» Poche parole riescono a riassumere gli incubi di tanti prelati dei primi anni del Dopoguerra quanto il ritornello della canzone I do piovani scritta nei primi anni Sessanta dal cantautore Gualtiero Bertelli e dallo storico Mario Isnenghi. La paura dei «rossi» faceva immaginare la fine d’un mondo: parrocchie, perpetue, sacrestani, elemosine… Tutto travolto dai «comunisti».
Forzature di spiritosi intellettuali un po’ goliardici? Mica tanto, a rileggere i proclami di padre Riccardo Lombardi nella campagna elettorale del 1948 per trasformare la società «da selvatica in umana, da umana in divina» e sconfiggere «il comunismo, capolavoro del Demonio». O il volantino distribuito alla dame napoletane: «Pensa, ragazza mia/ al tuo sogno d’amor/ combatti la follia/ del bieco agitator». Quella era l’aria che tirava.
Ma su tutti e tutto, nella provincia più bianca d’Italia, quella di Vicenza che sfornava a Casoni, nei dintorni di Bassano del Grappa, la più alta percentuale planetaria di seminaristi, preti, suore e badesse (una persona ogni 44 abitanti!) svettava lui, il vescovo Carlo Zinato. Il quale, scrive Roberto Fornasier nel saggio Mariano Rumor e le Acli vicentine, rivendicò da subito il diritto della Chiesa d’intervenire nelle faccende politiche. E quando la Consulta nazionale approvò l’art. 66 della legge elettorale che fissava dei paletti per quei preti, parroci, vescovi che «si adoperano a costringere gli elettori a firmare una dichiarazione di presentazione di candidature o a vincolare i voti degli elettori a favore od a pregiudizio di determinate liste», saltò su. E bollò l’articolo, ispirato al «dare a Cesare quel che è di Cesare», come «liberticida, settario, offensivo del clero italiano, lesivo del diritto nativo della Chiesa e, per ciò nullo». Vescovo e giudice costituzionale.
Sarebbe stata solo la prima di infinite intromissioni. Ed è lì, negli anni Sessanta del Concilio Ecumenico Vaticano II e dei mille fermenti di insofferenza, contestazione e rivolta sfociati poi nel Sessantotto, che si arroventa e s’incendia il rapporto tra il vescovo principe e un gruppo di preti di base ai quali un certo tipo di Chiesa stava sempre più stretta.
C’era tra questi preti, più sofferente e più insofferente di tutti, don Bruno Scremin. Veniva da una modesta famiglia operaia proprio di Bassano del Grappa, «la culla dei preti», e per decenni come racconta don Luigi Maistrello ne Lo scontro. Il vescovo principe e il prete ribelle (Reverdito editore), era stato un seminarista, un prete, un teologo, un docente «senza grilli per la testa». Finché, appunto, l’inquietudine per le contraddizioni di una certa Chiesa clericale preconciliare finì per diventare incontenibile. E sfociò, inevitabilmente, in uno scontro frontale con quel vescovo che come forse nessun altro rappresentava il mondo che lui si illudeva di poter cambiare. Scontro destinato a diventare la sintesi delle spaccature del «piccolo mondo antico» vicentino.
Val la pena di rileggere Camilla Cederna, la giornalista de «l’Espresso» che ironizzando velenosa sulle solennità ostentate di Carlo Zinato (le ricordavano la vaporosa Wanda Osiris) gli appiccicò il letale nomignolo «Wandissima»: «Quando andai nella cattolica Vicenza nel ’63 imperava il gran vescovo, monsignor Carlo Zinato, che era famoso per il suo gusto della pompa e il suo esteso autoritarismo. (“Chi comanda a Vicenza?” chiede uno di fuori. “Zinato”, è la risposta. “Chi è il sindaco?” “Zinato”. “Chi è il prefetto?” “Zinato.” “E chi è il vescovo?” “Ma Zinato, ti ho detto!”)».
Già allora, proseguiva la grande cronista ne Il mondo di Camilla, «stavano cambiando i rappresentanti della vecchia tipologia cattolica vicentina; più che aristocratici o grandi terrieri, erano diventati industriali e dirigenti bancari; più che pensare al peccato, pensavano soprattutto agli affari e al controllo del potere. Rimasero però della vecchia “vicentinità cattolica” l’ambiguità delle posizioni umane e politiche, l’arte sapiente di attutire i contrasti, lo spegnimento discreto delle voci troppo originali o acute…».
Una diagnosi impietosa e sferzante. Falsa? Mah… Certo è che per tenersi strette le sue pecorelle nel recinto delle «antiche, care, rassicuranti certezze d’un tempo» senza le pericolose inquietudini dei cacadubbi, Zinato non si fece scrupolo di compiere passi che perfino i critici più benevoli devono riconoscere inaccettabili.
Era il 1954 quando il vescovo vicentino concesse il suo imprimatur ufficiale, alla ristampa de Il Beato Lorenzino da Marostica, scritto nel 1885 dal prete Giovanni Ronconi. Il libro, presentato in prefazione da don Igino Milan come «una pia lettura» e «una guida per i buoni fedeli che nutrono amore e venerazione al piccolo Martire», raccontava che il 5 aprile 1485, Venerdì Santo, quando aveva cinque anni, il piccolo si era perso in un bosco. «Nel giorno che la pietà cristiana consacra alla morte di Cristo, vagavano per quei luoghi degli ebrei, con il truce disegno di trovare tra i cristiani una vittima da sacrificare in odio a Gesù Cristo». In coda al libriccino, un po’ di preghiere: «O Dio, restauratore dell’innocenza, per il cui nome il Beato innocente Lorenzino fu trucidato dai perfidi giudei con il supplizio di una morte crudele…» E ancora: «O Martire glorioso, Beato Lorenzino, che offristi il Tuo tenero corpicciolo all’ira nefanda dei nemici di Cristo…».
Erano passati nove anni dalla definitiva conferma dei crimini dell’Olocausto, dalla diffusione delle spaventose foto delle fosse comuni, dal ritorno dei sopravvissuti con il loro racconto di orrori. Sette anni dalla delibera del Parlamento polacco di fare di Auschwitz un Museo che ricordasse il genocidio degli ebrei, sette dalla prima pubblicazione di Se questo è un uomo (col titolo I sommersi e i salvati ) di Primo Levi, sette dalla prima edizione del Diario di Anna Frank.
Il fatto è che Carlo Zinato aveva quel chiodo fisso: il Male Assoluto era il comunismo. Lì era annidato Satana: nell’idea marxista che turbava le menti ed eccitava i cuori. Tutto il resto, per quanto grave o addirittura orribile, veniva comunque dopo. Sia chiaro: Josif Stalin, Mao Zedong, Pol Pot e altri ancora si sarebbero fatti carico di dimostrare quanto il socialismo reale potesse essere non meno spietato, criminale e assassino. Ma era l’«unico» Male Assoluto?
E fu davvero, al di là delle ironie, lo scontro tra due mondi. Di qua la resistenza e la paura di cambiare, di là l’ansia e la fretta di cambiare. Di svecchiare. Di scoprire percorsi nuovi. Due visioni diverse e su molti punti opposte della Chiesa, della fede, del ministero sacerdotale. Ripercorrere oggi quelle vicende nel cozzo frontale tra monsignor Carlo Zinato e il prete operaio Bruno Scremin, aiuta a rileggere la nostra storia. Oltre il personale destino di due uomini contro.