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 2016  novembre 12 Sabato calendario

Un anno dopo il Bataclan

Stefano Montefiori per il Corriere della Sera
«Dopo Charlie Hebdo i francesi sono scesi in piazza dicendo “sono ebreo, sono Charlie, sono la polizia, sono la République”. E dopo il 13 novembre, molti si sono sorpresi a cantare la Marsigliese: parole un tempo giudicate anacronistiche e sanguinose sono tornate attuali, di colpo si è capito che davvero “feroci soldati venivano fino nelle nostre braccia a massacrare i nostri figli e le nostre compagne”. Tante persone hanno, loro malgrado, riscoperto il patriottismo. Ma è durata poco. Nelle proteste contro la riforma del lavoro abbiamo sentito questo slogan terribile, “tutti detestano la polizia”. Ben presto i veri nemici sono tornati a essere lo Stato poliziesco e il capitalismo. Ne concludo che la Francia non è pronta a rispondere alla sfida dell’islamismo radicale». Nei giorni della commemorazione del più grave attentato che la Francia ricordi, il filosofo Alain Finkielkraut ripercorre un anno di – troppo timida, secondo lui – reazione al terrorismo e al radicalismo islamico.
Il premier socialista Manuel Valls è andato lontano nell’opporsi all’islam politico, arrivando a dire una frase impegnativa come «il velo islamico è sempre un problema».
«Ma la sinistra è molto divisa, e lo abbiamo visto con l’affare del burkini. La denuncia dell’islamofobia ha di nuovo preso il sopravvento sulla denuncia dell’islamismo. E Valls è stato sconfessato dalla sua ministra dell’Educazione, Najat Vallaud Belkacem. Secondo alcuni tutto comincia con l’islamofobia, la paura e l’odio del musulmano, e se ci sono delle violenze, degli attentati, è sempre solo per reazione a questa chiusura. Anche la destra oscilla tra l’intransigenza e il clientelismo. In molte città francesi oggi il voto musulmano prende sempre più importanza, ci sono sindaci che vengono a patti con le esigenze degli islamisti».
Sta dicendo che in Francia sta accadendo quello che è successo a Molenbeek con il borgomastro Philippe Moureaux, che fondava il suo potere sul chiudere gli occhi?
«Certamente. E penso che questo aspetto prenderà un’importanza sempre maggiore. Il Collettivo contro l’islamofobia in Francia (CCIF) di Marwan Muhammad si rafforza, distribuisce a destra e a sinistra certificati di maggiore o minore islamofobia in vista delle prossime elezioni. Andiamo verso quella direzione».
Quindi quando il favorito alle primarie della destra Alain Juppé scrive un libro intitolato «L’identità felice», contrapposto al suo «L’identità infelice», lo fa per calcolo?
«C’è senza dubbio una parte di calcolo, ma anche una parte di sincerità. E dunque di cecità. Alain Juppé è andato a Argenteuil dove Sarkozy anni fa si era scagliato contro la racaille, la feccia di periferia. Ha voluto essere l’anti-Sarkozy e ha promesso di instaurare una “Repubblica del rispetto”. Ma proprio lì, qualche giorno prima, due uomini avevano accusato di razzismo e pestato a sangue un maestro reo di avere sgridato una bambina. E Juppé che cosa fa? Invece di dire che è la Repubblica a dover essere rispettata, capovolge i termini della questione».
Nicolas Sarkozy, invece, conduce una battaglia contro i menù islamici nelle mense scolastiche e proclama: «Un bambino che non vuole mangiare il prosciutto si accontenterà di una doppia razione di patatine! Un menù uguale per tutti, questa è la Repubblica!». Si mostra intransigente, ma in modo opportuno secondo lei?
«No, è fuori posto. Vuole difendere il principio dell’assimilazione, cosa che comprendo perché per me non significa fondersi nella massa ma la possibilità data a ciascuno di unirsi alla nazione. Ma questo passa attraverso la trasmissione, non l’ingestione».
Comunque il salafismo, inteso come islam praticato in modo radicale, non coincide con la minaccia terroristica. L’osmosi non è significativa.
«Ma i salafisti invitano gli altri musulmani a rompere i legami con la società francese. Non sono una piccola setta, non sono degli amish in America. In certi luoghi hanno la forza del numero. Una società, una nazione viva non può permettersi di accettare questo separatismo».
I temi identitari sono il cuore della campagna elettorale, in Francia non si parla d’altro.
«Alcuni vorrebbero. Secondo Emmanuel Macron per esempio i problemi sono economici e le soluzioni anche. Ma non pacificheremo le tante Molenbeek con l’“uberizzazione”. I francesi sono inquieti per gli attentati, e perché questa immigrazione non è stata oggetto di alcuna deliberazione democratica. È il cambiamento più importante della storia recente, e ci è piovuto addosso. Sarkozy ha ragione nel domandarsi se la Francia potrà restare la Francia».
Bisognerebbe intendersi su che cos’è la Francia. L’immigrazione fa parte della sua identità.
«Ma oggi c’è una difficoltà particolare che deriva dall’ascesa dell’islamismo. E talvolta abbiamo la sensazione che sia troppo tardi. I professori continueranno a essere aggrediti e i poliziotti insultati. E città intere saranno abbandonate dai francesi originari. Non vedo alcun segno che possa indurmi all’ottimismo».
Marine Le Pen è defilata: in testa ai sondaggi, lascia che gli avversari lavorino per lei.
«È desolante. Nel 2002 il passaggio di Jean-Marie Le Pen al secondo turno creò un grande trauma nella società francese. Nel 2016 si dà per acquisito che sua figlia Marine sarà al ballottaggio. E può arrivare davanti al probabile candidato della destra, Juppé. Tra la cecità ideologica di parte della sinistra e il clientelismo elettorale di parte della destra, si è creato un consenso che gioca a favore del FN. Marine Le Pen non ha più bisogno di parlare, i fatti parlano per lei».
Che cosa pensa della Génération Bataclan?
«Prima, i suoi membri erano sospesi per aria. Cittadini planetari. Gli attentati li hanno brutalmente fatti ridiscendere sulla Terra. Questa generazione ha riscoperto la nazione. Spero che sarà capace di trarne le conseguenze».

***
Anaïs Ginori per la Repubblica
È riuscito a tornare a un concerto. «Ma non l’ho detto alle mie figlie, ho inventato una riunione di lavoro». Samuel Charon, nato a Nantes 43 anni fa, era venuto a vivere nella banlieue della capitale proprio per potersi godersi la ricca scena musicale. Uno spettatore assiduo, «amante del rock dalla A alla Z». Era già stato una quindicina di volte al Bataclan. E il 13 novembre di un anno fa aveva il suo biglietto per il concerto degli Eagles of Death Metal. Molti giornalisti che erano fuori dalla sala lo ricordano con la maglietta insanguinata, gli occhi sbarrati, mentre esce dopo quasi due ore di assedio. Era stato uno dei primi testimoni a raccontare l’orrore.
Oggi sorride, sorseggiando un caffè vicino all’ospedale Saint-Antoine dove va per i suo colloqui con gli psicologi. «Mi perseguita l’immagine di una ragazza che era accanto a me, sdraiata a terra durante l’attacco. Ho fatto di tutto per ritrovarla, ma non ci sono mai riuscito». Con altri superstiti invece è entrato subito in contatto. Insieme hanno fondato “Life for Paris”, di cui è segretario generale, con 650 iscritti. L’associazione offre una consulenza per indennizzi e procedure amministrative, ma anche sostegno psicologico. «Molti di noi avevamo bisogno di confrontare i ricordi, condividere le paure», spiega Samuel che lavorava al comune di Seine-et-Marne, banlieue di Parigi, ma dopo l’attentato ha avuto bisogno di «prendere le distanze», si è dimesso. Il suo sguardo sulla vita, dice, non è cambiato. «Forse il mio ottimismo è meno forte ma cerco di resistere pensando alle mie figlie».
«Ognuno reagisce a modo suo. Io ci penso ogni giorno. Altri sembrano aver dimenticato ma magari tra qualche anno avranno problemi più gravi dei miei». Rispetto ad altri superstiti, che cercano di proteggersi da notizie e rivelazioni dell’inchiesta, Samuel guarda e legge tutto. «Ho bisogno di capire, di ricostituire i tasselli del puzzle. Mi aspetto molto dall’inchiesta della magistratura anche se so che sarà lunga». Dopo gli attentati di Nizza, alcuni parenti di vittime hanno contattato “Life For Paris”. «È brutto dirlo, ma ormai abbiamo una sorta di kit d’intervento in queste situazioni». Stasera invece non andrà al concerto di Sting per la riapertura del Bataclan. «Semplicemente perché non ne sono capace anche se sono convinto che la sala debba vivere e tornare a essere un luogo di festa. Per me è ancora troppo presto».