Pallinato da Frammenti, Gruppo AAA, 31 marzo 2008
Limes, marzo 2008 Molti pensano che il Kosovo abbia superato una fase decisiva del processo di cambiamento istituzionale
• Limes, marzo 2008
Molti pensano che il Kosovo abbia superato una fase decisiva del processo di cambiamento istituzionale. La dichiarazione unilaterale d’indipendenza pronunciata dal primo ministro Hashim Thaçi il 17 febbraio scorso sembra essere il punto di arrivo di quel percorso iniziato nei primi anni Ottanta da altri personaggi di ben diverso calibro, tensione morale e cultura. Un percorso fatto di fede e contraddizioni, incerto ma non timido, pacifico e violento, spontaneo e provocato, mai rassicurante e sempre provocatorio. Un percorso contrassegnato da pretesi successi e clamorosi fallimenti camuffati da successi parziali che doveva portare appunto alla indipendenza. Molti uomini politici di diverse generazioni, cultura e origini hanno di volta in volta presentato successi e fallimenti come irreversibili, ineluttabili. Formati nelle scuole di partito da un lato e nelle omologhe università del pensiero unico e lineare dall’altro, hanno scambiato i propri limiti per eventi soprannaturali. La sostanza dell’indipendenza, che dovrebbe assicurare la non dipendenza come premessa della sovranità, si è trasformata in rito. E siccome la caratteristica dei riti è la ripetitività, la dichiarazione d’indipendenza del Kosovo si ripete periodicamente con nuove varianti ma senza che nulla cambi dal punto di vista sostanziale e sempre prevedendo la nullità di quella precedente.
Se veramente l’indipendenza del popolo kosovaro fosse stato l’obiettivo di questo lungo processo e se veramente il risultato trionfalmente reclamato da Hashim Thaçi fosse irreversibile, non ci dovremmo trovare, tutti noi e tutti i kosovari, nella condizione di guardare al Kosovo con inquietudine. Dovremmo rallegrarci e lasciare che il popolo kosovaro lavori finalmente in pace. Con i propri mezzi e per sé. Dovremmo semmai garantire la cornice esterna di sicurezza e legalità in modo che si possano prevenire altre degenerazioni, dovremmo semmai favorire l’integrazione del Kosovo in un contesto ordinato, legale, legittimo, rassicurante, fatto di un benessere, quello possibile, condiviso. Siamo invece tutti preoccupati e quei pochi che non lo sono si consolano con il pensiero unico, con il cinismo e con l’indifferenza. Chi non si preoccupa del Kosovo oggi non se ne è mai occupato neppure quando faceva fallire i negoziati e ordinava i bombardamenti.
La preoccupazione sostanziale viene dalla constatazione che nella ritualità scelta dagli stessi kosovari albanesi per questa funzione liturgica prevalgono lo scetticismo e la sfida. Lo scetticismo di chi evidentemente non crede in ciò che dice e solennemente dichiara. Non crede nella bandiera nazionale inventata dalla sera alla mattina per captatio benevolentiae nei riguardi di un’Europa disattenta e distratta, non crede agli appelli al ritorno dei rifugiati serbi sapendo di non poterne garantire né l’incolumità né la reintegrazione nelle proprietà e nei diritti basilari di sussistenza, non crede al clima di comprensione che si sforza di costruire visto che si sente costretto a minacciare gli stessi membri di parte e partito perché desistano dalla violenza nei giorni della dichiarazione. Una violenza che si sa latente e sempre più difficile da contenere. Si ripete la grottesca scena della fine della guerra quando un capo Uçk particolarmente solerte aveva ordinato di uccidere i suoi stessi uomini che non avessero consegnato le armi.
La sfida presente nel rito della dichiarazione d’indipendenza è come sempre arrogante e minacciosa, ma questa volta condita di sarcasmo, d’irriverenza, di mancanza di rispetto nei confronti di tutti e di tutto; a partire dallo stesso popolo kosovaro per finire alle istituzioni e alle nazioni più potenti della terra, che vengono sbeffeggiate e ridicolizzate.
La dichiarazione segue il fallimento della cosiddetta mediazione Ahtisaari e del tentativo successivo della trojka fatta da Europa, Russia e Stati Uniti. La mediazione non voleva mediare alcunché. Non voleva comporre alcun conflitto ma voleva soltanto irrigidire le posizioni in modo che l’indipendenza fosse ineluttabile. Nello stile balcanico più classico, fatto ormai proprio da molti illustri pseudomediatori, il pretesto della rottura non viene da una delle parti in causa ma da un terzo attore generalmente incoraggiato a questo ruolo. Questa volta tocca ad Ahtisaari, che in verità non fa nulla per nascondere il suo piacere. Il successivo tentativo della trojka è una vera chicca: viste le dimensioni degli attori e della posta in gioco è una presa in giro di proporzioni globali. Le tre entità più potenti del globo terracqueo e dello spazio planetario non trovano un accordo sul Kosovo che salvaguardi il diritto intenazionale al quale così spesso e così drammaticamente si appellano in nome di tutta l’umanità. Probabilmente perché non riescono a trovare il lembo di terra conteso e a collocarlo sul mappamondo. E sanciscono la definitiva rottura delle trattative.
A prescindere dai tentativi più o meno genuini di soluzione, l’indipendenza è già annunciata da diversi candidati durante la campagna elettorale per il rinnovo del parlamento. Chi va a votare sa che quell’assemblea dichiarerà la tanto sospirata indipendenza. Tuttavia la campagna non riguarda la formazione di un’assemblea costituente o un plebiscito, un referendum istituzionale o qualsiasi altra iniziativa libera e indipendente. I candidati corrono per un posto in un’assemblea e per un governo che non sono autonomi e non hanno pieni poteri. Anzi, sono pagati dagli stranieri e non hanno alcun potere se non quello di volta in volta elargito dal rappresentante dell’amministrazione delle Nazioni Unite. E questo rappresentante si dovrebbe attenere al rispetto della risoluzione del Consiglio di Sicurezza 1244 che ribadisce la sovranità della Serbia sul Kosovo e che rimanda la definizione dello status finale a un accordo tra le parti e non al loro scontro o alle delibere di un’assemblea handicappata. I candidati che preannunciano la violazione della 1244 lo fanno in una campagna che deve eleggere gli organi provvisori di autogoverno stabiliti dalla stessa risoluzione. Il garante del mandato della 1244 fa fìnta di non sentire che si sta preparando la violazione della fonte della sua stessa autorità. Non intervenendo in campagna delegittima se stesso. Non intervenendo dopo chiude di fatto la missione internazionale.
Quando nel 2003 in circostanze analoghe un esponente politico kosovaro evocò la dichiarazione unilaterale, i vertici di Unmik e Kfor intervennero decisamente sugli organi provvisori di autogoverno rammentando lo spirito e la lettera della 1244. Il primo ministro pro tempore si affrettò a dire che l’incauto leader parlava per se stesso e si era lasciato trasportare dalla passione politica: comunque ciò che diceva "non contava niente".
Se questa volta ai leader politici kosovari, al governatore di Unmik e al comandante di Kfor non viene alcun dubbio di legittimità su ciò che si dice alle folle, la gente comune del Kosovo sembra invece accorgersi della imminente presa in giro e diserta le elezioni. La maturità democratica del Kosovo e la sfiducia nei riguardi degli standard imposti dalla comunità internazionale si esprimono con la più bassa affluenza alle urne dei nove anni di protettorato. La nuova assemblea provvisoria, eletta dal 43% degli aventi diritto al voto, presieduta da un presidente provvisorio (lo stesso ”incauto” di alcuni anni prima), applaude il primo ministro provvisorio eletto dal 32% di quel 43% che, a nome di tutto il popolo kosovaro, compresi quelli che non hanno votato e quelli che non ci sono, di-chiara l’indipendenza. Il capo di Unmik ancora una volta non fa una piega e non si avvale di nessuno dei poteri stabiliti dalla costituzione promulgata dai suoi predecessori per sanzionare l’illecito giuridico. La dichiarazione può quindi fregarsene della risoluzione 1244, delle Nazioni Unite, del Consiglio di Sicurezza, dell’Osce e della stessa Europa.
Si proclama l’indipendenza del Kosovo dalla Serbia e al tempo stesso se ne ribadisce la dipendenza da un’amministrazione transitoria. Si parla di Stato multietnico ma chi parla è soltanto un’etnia. Si forniscono assicurazioni formali per il futuro ignorando le inadempienze e le violenze del passato e del presente. Con un sarcasmo che sfocia nell’insulto all’intelligenza, si affida il Kosovo alla protezione dell’Europa sapendo bene che il proprio atto la divide e la delegittima. Viene soprattutto delegittimata e vanificata l’idea dell’Europa, che fonda l’Unione proprio sul concetto di superamento dei confini nazionali a favore della condivisione dei vantaggi, dei diritti, del rispetto reciproco e degli interessi pratici delle popolazioni europee.
Tuttavia la ciliegina sulla gigantesca e clownesca torta in faccia alla comunità internazionale è la dichiarazione della unicità del caso del Kosovo e della sua improponibilità in situazioni analoghe. Una dichiarazione unilaterale che viola tutti i princìpi formali e sostanziali sui quali si regge l’ordine mondiale, per quello che va-le ancora, si permette di lanciare l’ulteriore sfida dichiarando che il Kosovo non co-stituisce un precedente. Solo il Kosovo, in virtù di chissà quale prerogativa divina può arrogarsi il diritto di separarsi, di reclamare l’indipendenza, di violare le norme internazionali e di pretendere protezione, soldi e impunità. Gli altri popoli, anche quelli veramente oppressi, non possono seguire la stessa strada, o meglio, possono farlo ma senza il riconoscimento di legittimità di nessuno. Dopo il Kosovo nessuno può dichiararsi indipendente e quelli che l’hanno già fatto non devono essere riconosciuti. Questo dice solennemente l’assemblea provvisoria di Pristina. Ora bisogna dare questa buona notizia a tutti i 109 paesi, movimenti, partiti e gruppi di pressione secessionisti del mondo. Ai 23 in Africa, 21 in Asia, 26 in Europa, 6 in Medio Oriente, 5 in Nordamerica, 16 in America del Sud e 12 in Oceania. Bisogna dirlo agli stessi albanesi di Presevo e della Macedonia, ai serbi della Srpska e bisogna dirlo anche ai paesi che si aspettano il riconoscimento internazionale dopo aver già dichiarato l’indipendenza unilaterale: Abkhazia, Cecenia, Nagorno-Karabakh, Palestina, Somaliland, Ossezia del Sud, Transnistria e Repubblica Turca di Cipro Settentrionale. Una dichiarazione unilaterale di questo tenore, nel caso sia accettata dalle istituzioni internazionali, stabilisce surrettiziamente una norma di riconoscimento che pone in contraddizione le stesse politiche e le prerogative della comunità internazionale e degli Stati membri. Gli Stati frettolosi che l’hanno già accettata si trovano ora a dover adeguare la loro politica verso gli Stati, verso i popoli, verso gli stessi processi di autodeterminazione alle modifiche dettate a Pristina da un paio di consulenti iperpagati al servizio di chi vuole continuare a fare i propri affari.
Se l’indipendenza non è un punto di arrivo, potrebbe però essere un punto dipartenza. Anzi alcuni di coloro che l’hanno promossa e sostenuta la vedono come un fatto compiuto necessario per far ripartire il Kosovo dimenticando il passato. Sfortunatamente in questa posizione c’è tutta la tragica arroganza di chi si crede in diritto di creare nuove regole senza neppure la consolazione del sarcasmo che potrebbe far sorridere. La stessa pretesa che si possa ripartire adattando vecchie norme e forzandone l’applicazione in una versione creativa è inconsistente se non si considera e prende atto di ciò che nel frattempo è avvenuto. In questo senso l’Europa è quella che più si è esposta nel promettere di controllare e dirigere il cambiamento senza aver capito quanto profonde e importanti siano state le trasformazioni avvenute in Serbia, in Kosovo, nei Balcani, in Europa, in America e nel mondo intero. Una burocrazia più cinica che pragmatica è ricorsa a qualsiasi mezzo di pressione e perfino al ricatto alla Serbia promettendole l’ingresso in Europa al prezzo di una tacita adesione alla secessione. E ha accettato i diktat americani e albanesi nel promettere una protezione economica, politica e militare fondata sulla propria impotenza e sulla salvaguardia di cordate affaristiche che del Kosovo democratico e multietnico non sanno che farsene e che puntano a uno Stato capace di proteggere e proiettare in Europa e nel mondo gli affari illeciti.
singolare che la portata e la natura del cambiamento avvenuto in Kosovo e per il Kosovo siano sfuggite proprio alle gerarchle di un’Europa mercantile e bancaria visto che gli studi più avanzati sui fenomeni correlati ai cambiamenti dell’ordine istituzionale sono stati fatti dagli economisti. I casi più significativi esaminati in quest’ultimo decennio si sono ovviamente limitati alle istituzioni economiche e finanziarie nella trasformazione dei sistemi centralizzati e pianificati a quelli del moderno dio Mercato. In particolare hanno riguardato la crisi asiatica, con gli studi del 1998 di Singh, Chang, Park e Yoo sulla Corea, e il fenomeno Cina studiato nella stessa chiave e nello stesso periodo da Jin e Haynes. In entrambi gli studi è stato rilevato che "nelle economie di transizione le spinte al cambiamento spesso conducono a una asimmetria fra le fasi di distruzione e costruzione delle istituzioni. In particolare la distruzione di un sistema a economia pianificata è molto più semplice della costruzione di un nuovo sistema di economia di mercato. Di conseguenza gli individui si devono confrontare in maniera più o meno duratura con una carenza di regole sulle quali coordinare i propri piani e c’è il pericolo che un processo di transizione troppo veloce possa trasferire i vantaggi della governance a organizzazioni di tipo mafioso piuttosto che a istituzioni di mercato" (P. Dulbecco, M.F. Renard, "Permanency and flexibility of Institutions: The Role of Decentralization in Chinese Reforms", The Review of Austrian Economics, vol. 16, n.4, 2003, pp. 327-346).
I Balcani e il Kosovo in particolare sono il laboratorio perfetto del paradigma teorico dell’asimmetria istituzionale. In questa parte del mondo si trovano concentrate e ancora aperte tutte le questioni che hanno dato vita ai grandi mutamenti istituzionali di quest’ultimo secolo. Sopravvivono nei Balcani le pulsioni imperiali russe, ottomane, inglesi, austro-ungariche, fasciste e naziste. Le pulsioni nazionaliste, etniche e in quanto tali religiose. In questa parte del mondo si sono susseguite le spinte di espansione sovietiche prima e statunitensi, poi, fino ad arrivare a quelle euro-atlantiche della Nato e quelle euro-nulla dell’Unione Europea. Nella ex Jugoslavia e in Kosovo si stanno ancora materializzando gli effetti del paradigma istituzionale. Non c’è dubbio che la Jugoslavia del dopo Tito, ma a vedere bene anche quella dell’ultimo Tito, soffrisse di senescenza istituzionale. Le spinte al cambiamento sono state gestite male e le resistenze si sono indirizzate tutte alla spartizione e alla separazione quasi a marcare la nemesi sulla unificazione degli slavi del Sud che la Lega dei comunisti aveva voluto attuare e imporre con la forza e le al-chimie demografìche. La delegittimazione delle vecchie strutture istituzionali si è realizzata in maniera concomitante con la frammentazione. Ma le nuove istituzioni, anche se sostenute da forti potenze esterne e dalle benedizioni dei vari padreterni, hanno subito dovuto verificare la propria immaturità nel gestire i conflitti. Di fatto, hanno rinunciato quasi subito a qualsiasi composizione e hanno optato per la risoluzione di forza.
In Kosovo questo processo di bellicizzazione del conflitto è stato ritardato sotto la guida di Ibrahim Rugova, ma con il sostegno di tutto il suo popolo. I kosovari albanesi erano schierati compatti, uniti e dignitosamente attivi, nella costruzione di una nuova struttura istituzionale nella quale trovassero posto le aspirazioni legittime di un popolo. Aspirazioni che ogni Stato serio, veramente sovrano e veramente democratico dovrebbe ascoltare e fare proprie e che invece la Serbia ha mancato di considerare. Le istanze legittime dei popoli riguardano sempre il riconoscimento dell’identità, della cultura, delle proprie libertà, della giustizia e del benessere. E a loro volta queste istanze diventano illegittime se tendono a sopraffare quelle degli altri. Nella piena consapevolezza che il processo di maturazione delle strutture kosovare che nel frattempo stavano nascendo era altrettanto lungo di quello della estinzione di quelle vecchie e della loro trasformazione in chiave ancora unitaria, il Kosovo di Rugova ha tirato la cinghia e rimboccato le maniche. Al tempo stesso si formavano in Kosovo e fuori le nuove strutture parallele: le milizie private al soldo dei serbi, quelle croate, quelle bosniache, le strutture politico-istituzionali delle fondazioni private come quelle dell’ungherese Soros che finanziava e finanzia tutte le istanze di separazione badando alla forma delle istituzioni più che alla loro sostanza. Si sono inserite le strutture parallele dei servizi segreti tedeschi, di quelli statunitensi e di quelli britannici riattivando i Balcani come terra del caos e delle cospirazioni.
La distruzione delle vecchie istituzioni kosovare istituite dai serbi è avvenuta per mano degli stessi serbi. vero che Milosevic aveva già perduto ogni autorità morale sul Kosovo nel 1989, quando invece di trattare con giustizia ed equità tutti i popoli posti sotto il suo governo si è ancorato alla divisione tra minoranze e maggioranze, tra etnie più o meno meritevoli di rispetto. Ma questo non significa che la Serbia avesse perduto la sovranità che appartiene agli Stati e non ai governi. Una sovranità che secondo il diritto internazionale non si sottrae più né per le nefandezze dei governanti, né con la guerra né con l’occupazione militare.
invece discutibile la considerazione di chi vuole che la Serbia abbia perduto il Kosovo con la guerra del 1999. A ben vedere in quell’occasione una parte della comunità internazionale ha tradito la propria cultura e le proprie istituzioni scatenando una guerra illegittima. Illegittima perché non sostenuta dalla stessa comunità internazionale e perché nella stessa logica dell’ingerenza umanitaria giungeva tardiva e veniva condotta da quelle stesse forze che avevano alimentato la genesi dell’emergenza umanitaria. La guerra è stata decisa dalle stesse nazioni che avevano cominciato a delegittimare i tentativi di Rugova, che hanno provocato la divisione della leadership politica alimentando le bande di ribelli che prima di combattere contro l’oppressione serba combattevano l’impostazione di Rugova stesso. Alla distruzione delle istituzioni serbe ha quindi fatto seguito quella del nascente Kosovo moderato proprio per mano degli stessi estremisti albanesi che preferivano la guerra permanente al conflitto. Nel 1999, semmai, la Serbia ha riaffermato il diritto di sovranità sul Kosovo difendendo il suo territorio dalla guerra. Ha tuttavia commesso l’orrore di pensare che la sovranità potesse essere esercitata con la puli-zia etnica. A questo orrore si è aggiunto quello di non aver fermato e anzi di aver alimentato quelle stesse strutture extraistituzionali che agli ordini di veri e propri criminali nel frattempo stavano agendo in contrasto con ogni principio di sovranità e umanità.
Ma la stessa delegittimazione e per le stesse identiche ragioni stava anche avvenendo per le milizie albanesi. L’intervento esterno nel conflitto del Kosovo è stato quello classico della guerra come strumento di risoluzione tramite la soppressione dei diritti di una delle parti. La sovranità della Serbia è stata violata ed è stata invece legittimata una parte violenta che ha poi approfittato della guerra e della protezione internazionale per condurre una contro-pulizia etnica. La guerra contro la Serbia ha anche avuto una classica connotazione di guerra di distruzione strutturale. Molte strutture dei trasporti e produttive serbe sono state colpite da ripetuti bombardamenti, anche al di là di ogni necessità militare. Nonostante l’evidente capitolazione della Serbia di fronte alla Nato non c’è stata una immediata e chiara assunzione di responsabilità e autorità di guerra da parte dell’Alleanza. La violazione delle norme internazionali che aveva determinato l’intervento militare e i 78 giorni di bombardamenti non si è spinta fino alla occupazione manu militari del Kosovo e alla sottrazione della provincia alla sovranità della repubblica di appartenenza.
Come era stata data poca importanza alle esigenze della gente del Kosovo nei precedenti dieci anni, l’indifferenza e il cinismo internazionali hanno permesso che nei dieci successivi si perpetuasse la distruzione istituzionale all’ombra di una presunta e indefinita ricostruzione. L’amministrazione delle Nazioni Unite sostenuta da cosiddetti pilastri formati da strutture delle Nazioni Unite, dell’Unione Europea e dell’Osce ha proceduto alla sistematica distruzione delle istituzioni serbe senza garantire la costruzione di quelle che avrebbero dovuto sostituirle. Questa distruzione risultava ancor più pericolosa e problematica perché avveniva in un quadro giuridico in cui la Serbia veniva ancora riconosciuta come sovrana sul Kosovo. Dal 1999 al 2008 la missione Unmik affiancata a quella militare Kfor ha proceduto alla distruzione di tutte le istituzioni serbe in Kosovo, di natura politica, amministrativa, economica, giudiziaria, sanitaria, finanziaria, di produzione, assistenza, istruzione, benessere e pubblica solidarietà. Le strutture serbe che dovevano comunque garantire per legge l’assistenza ai propri cittadini con i pagamenti dei sussidi di disoccupazione o le stesse pensioni sono state dichiarate ”parallele” e giudicate illegali. In compenso sono state legittimate e tollerate le vere strutture pa-rallele e illegali nate dalle costole delle bande armate dell’Uck che non hanno mai disarmato, dalle casse dei finanziamenti esteri alla guerra, da quelle dei traffici ille-citi e da quelle del terrorismo. I tentativi di ricostruzione sono stati quasi esclusivamente dei palliativi e delle azioni di basso populismo nei riguardi della stessa popolazione kosovara e di mortificazione ulteriore della sovranità serba.
L’Unmik ha in sostanza proseguito sul piano civile, sociale, economico e di polizia la guerra di distruzione iniziata dalla Nato badando bene a non costruire nulla che potesse aiutare il Kosovo a comporre il conflitto con la Serbia e quelli innumerevoli del proprio interno. Ai provvedimenti immediati di emergenza attuati con grande successo differenziale (da zero a uno) non è seguito nessun provvedimento strutturale e istituzionale che garantisse il vero successo incrementale portando il paese all’autonomia. La ricostruzione fìsica si è limitata alle sole opere cosmetiche e privatistiche: case, appartamenti, ville, distributori di benzina dove non circolavano veicoli, agenzie di viaggi per chi non aveva i soldi neppure per muoversi di casa, con grande dispendio di risorse e concomitante dispregio della legge e del diritto delle cosiddette minoranze. Il ritorno dei rifugiati è stato gestito in un solo senso, badando bene a non permettere la reintegrazione dei serbi nei loro diritti di cittadinanza e proprietà e a limitarne gli insediamenti in piccole enclave facilmente individuabili e vulnerabili all’eventuale nuova pulizia etnica. I vari modelli teorici di ricostruzione che sono stati proposti sono risultati utopici e completamente scollegati dalla realtà che nel frattempo si andava delineando. La realtà era infatti l’affermazione sul territorio di strutture politiche ed economiche locali tese all’interesse di poche persone o gruppi che non avrebbero mai potuto formarsi e sopravvivere in un regime di controllo di un qualsiasi Stato banana. La ricostruzio-ne in base a modelli teorici ha comunque contribuito a dirottare molte energie e molte risorse in campi e ambiti controllati da quelle strutture parallele che crescevano senza maturare e che di fatto gestivano potere e affari senza né la volontà né la capacità di governare.
La dichiarazione unilaterale d’indipendenza è la naturale conseguenza di questo processo molto complesso ma anche molto intuitivo. Non è tuttavia la conclusione e neppure l’inizio di una nuova fase. I mutamenti e le strutture di potere che si sono formate in questi dieci anni non permettono di voltare pagina. Siamo ancora costretti a leggere e interpretare sempre la stessa, sulla quale campeggiano i nomi e i volti delle stesse persone. Perché, alla fine, un’altra caratteristica di questo Kosovo condannato alla dipendenza è che, contrariamente a qualsiasi processo di transizione istituzionale, dove generalmente ad ogni fase corrisponde un cambio di leader e di assetti di potere, qui da oltre dieci anni si vedono sempre le stesse facce. E quando sono cambiate per cause naturali o violente in realtà corrispondono e rispondono ad altre facce identiche, veri e propri cloni. E sono facce e persone che non permettono di voltare pagina perché in una posizione o nell’altra sono sempre rivolte allo stesso fine.
In Serbia ci sono ancora gli stessi nazionalisti di Milosevic e rischiano di prendere il potere. Quando parlano del Kosovo usano le stesse frasi e la stessa retorica che ha portato la Serbia al collasso e alla gogna. Kostunica è lo stesso che ha liquidato Milosevic ricevendo la gratitudine americana e per questo appare incredibile agli stessi americani che ora non voglia vendere il Kosovo al miglior offerente. La gente serba è cambiata, vorrebbe voltare pagina ma non a tutti i costi. chiamata continuamente a votare e a ogni voto le posizioni si radicalizzano.
(continua. VEDI SCHEDA 153926)
• (Limes marzo 2008, segue da scheda 153925)
Oggi, se venisse confermata sul piano prettamente formale la sovranità di Bel-grado sul Kosovo, i serbi sarebbero disposti a riconoscere l’autonomia più ampia, l’autogoverno, la rappresentanza all’estero presso gli organismi internazionali, rinuncerebbero alla gestione amministrativa, non imporrebbero le proprie truppe, la propria polizia, le tasse, la moneta, la lingua, le targhe automobilistiche, le scuole, le università e gli accordi con paesi che i kosovari non volessero riconoscere. E non chiederebbero nulla in cambio se non il riconoscimento formale di qualcosa che giuridicamente già hanno e che nessuno giuridicamente può sottrarre con la forza. Oggi. Domani potrebbero ritirare tutto e iniziare la guerra strisciante tra le etnie e le milizie facendo precipitare i Balcani in un nuovo medioevo. I serbi e le altre minoranze del Kosovo sono sempre gli stessi e non possono voltare pagina perché in questa pagina sono ancora vivi e nella successiva potrebbero essere cancellati del tutto. La Chiesa serba ortodossa è sempre la stessa con i suoi vescovi, i preti, i monaci, i quasi preti e i quasi monaci, le suore e le quasi suore. Tutti più fanatici che mai e meno che mai disposti a chiedere perdono, a perdonare o soltanto a convivere. Sono piuttosto propensi alla guerra per il gusto del martirio e per negare perfino il conflitto che comunque imporrebbe di dialogare.
Gli albanesi del Kosovo sono sempre gli stessi. Anche i morti sono presenti più che mai e non solo per le centinaia di tombe infiorate lungo le strade a marcare la mitopoiesi dell’Uck. Rugova è morto, ma i suoi successori vorrebbero imitarlo, se non come uomo, come presidente. E come Rugova pregava Madre Teresa di Calcutta, il presidente Sejdiu va dal Papa a farsi benedire pochi giorni prima della dichiarazione unilaterale d’indipendenza. I membri del partito di Rugova morti ammazzati nelle faide con gli ex appartenenti all’Uck e al partito di Thaçi stanno a guardare un partito che si sta estinguendo proprio a causa dell’indifferenza internazionale per le sorti del Kosovo moderato. Eppure la gente che celebra l’indipendenza dichiarata da Thaçi è la stessa che celebrava quella di Rugova, e la ”liberazione” della Nato, con le stesse bandiere e con gli stessi inni: "Viva Ru-gova, viva l’Uck, viva Thaçi, viva la Nato, viva Clinton, viva l’America”. Uno zibaldone balcanico che oltre all’entusiasmo dimostra l’incapacità della gente di distinguere chi è chi.
Agim Ceku è ancora lì ed è lo stesso della Krajina, dell’Uck, del Kpc degli accordi con gli albanesi per la fornitura delle armi e delle informazioni, degli accordi con gli inglesi e i servizi americani e la speranza segreta di mettersi allo stesso tavolo con i generali serbi. Un giorno. Thaçi non è lo stesso ragazzaccio degli anni Novanta, ma è lo stesso caparbio e astuto seduttore di Rambouillet, quando mandava in deliquio Madeleine Aibright che aveva messo al suo servizio l’intero Dipartimento di Stato americano. Oggi ha dichiarato l’indipendenza e non è una novità. Come Jakup Krasniqi e un’altra manciata di irriducibili nazionalisti ha sempre voluto questo e ha sempre curato gli affari propri e del proprio clan nell’ottica che solo la posizione di vertice in un Kosovo indipendente poteva dare frutti duraturi.
Anche Ramush Haradinaj è sempre lo stesso. Si è costituito all’Aia per due volte. Prestigiosi rappresentanti internazionali hanno garantito per lui. Il suo clan è ancora potente nonostante le perdite familiari subite. Se il processo dell’Aia riuscirà a concludersi prima che scompaiano tutti i testimoni, sarà l’unico leader dell’Uck a pagare. E pagherà per tutti perché nel frattempo tutti gli altri saranno immuni e impuniti. E poi ci sono gli affaristi, i grandi finanziatori dell’indipendenza, i manovratori delle banche e dei gruppi di pressione. Gente come i fratelli Lluka, Paçolli, Bukoshi di cui tutti dicono un gran male e che nessuno riesce a incastrare. Gente che però ha dedicato gran parte delle proprie fortune alla causa del Kosovo indipendente, come nessun industriale o bandito ha mai fatto in altre parti del mondo per la propria terra e le proprie idee, fatto salvo forse Osama bin Laden. Una causa che comunque non diventa sbagliata soltanto perché non si sa da dove vengono i soldi o dove finiscono quelli che la comunità internazionale continua a buttare nel grande tritatutto kosovaro. E poi ci sono i capi dei clan territoriali, i cui nomi sono immutati da oltre vent’anni sia che si parli di affari leciti, contrabbando, rivolte, omicidi, faide politiche, traffici illeciti, corruzione e amministrazione pubblica. Non sono più di duecento persone, comprese le guardie del corpo, e non vogliono voltare pagina perché in questa ci stanno bene, come pascià. E se le cose continuano così non possono che stare meglio.
Rimane un’inezia di un paio di milioni di persone che vorrebbero voltare pagina, ma non ce la fanno. Sono oppressi da una vita senza prospettive, in un sistema in cui l’appartenenza a questo o quell’altro circolo è fondamentale. La massima aspirazione dei giovani kosovari è emigrare. Ma l’Europa delle leggi di polizia anti-terrorismo, anticriminalità e anti-islamiche non offre grandi prospettive. La Germania ha speso un patrimonio negli aiuti al Kosovo nel solo intento di disfarsi dei rifugiati ancora in territorio tedesco. Con il Kosovo indipendente ha ripreso qualche speranza di farne rimpatriare una bella fetta. facile che qualcuno in Italia, stanco delle mafie albanesi e kosovare che scorrazzano in Padania, pensi già a un bel piano di rientro a casa propria di questi poveri profughi.
Ma il Kosovo non è fatto solo di serbi e albanesi, di poveracci e capi clan. fatto anche di europei famosi e facoltosi, di americani prestigiosi. Gente che in Kosovo fa gli affari propri o delle organizzazioni internazionali, spesso in maniera intercambiabile, o gente che in Kosovo non c’è mai stata e che possiede quote di società kosovare o in partecipazione con kosovari più o meno camuffati. Gente che ha avuto e ha una grossa responsabilità nella situazione del Kosovo attuale e che proprio per questo non ha alcuna intenzione di cambiare registro. Javier Solana era segretario generale della Nato quando fu fatta la guerra alla Serbia per il Kosovo. Con la guerra, si guadagnò la nomina a segretario generale della Ueo e contemporaneamente quella di massimo rappresentante della politica estera e di sicurezza dell’Unione Europea. Con lui l’Unione non ha mai rivendicato un ruolo decisivo nella sicurezza regionale e ha accettato l’imposizione della Nato di non costituire un esercito europeo. In questo decennio Javier Solana si è affiancato alla politica antiserba e antimacedone di Lord Robertson, suo successore alla Nato e fedele esecutore degli ordini americani.
Il presidente Clinton è l’americano simbolo della liberazione dei kosovari. anche il garante dell’indipendenza in qualsiasi forma. Non ha mai avuto dubbi sul ruolo statunitense di paese guida della libertà, compresa quella di violare le norme internazionali. Le sue promesse di indipendenza sono sempre state esplicite e hanno dettato la politica statunitense nei Balcani che non è riuscita a staccarsi di dosso le scorie ideologiche e il progetto di frantumazione della Jugoslavia. L’ambasciatore statunitense a Belgrado, Montgomery, aveva una visione più aperta, ma non è riuscito neppure a scalfire la politica di chiusura del suo paese nei riguardi della Serbia. A Pristina, i capi degli uffici di rappresentanza americani non si facevano scrupolo nel ricevere e foraggiare i più discussi e controversi capi clan kosovari. Americani, civili e militari, in Kosovo subivano e subiscono poi il fascino del guerrigliero. Noti tagliagole erano apprezzati e protetti mentre la prospettiva di affari lucrosi non ha risparmiato funzionari influenti e qualche generale in pensione.
Gli stessi capi di Unmik e delle varie agenzie sono riusciti in diversa misura e per vari motivi a perdere di prestigio e credibilità rendendo sempre più diffìcili i rapporti tra Pristina e Belgrado e facendo scadere la missione di Unmik ai livelli di efficienza e credibilità più bassi al mondo. Kouchner, che ora da ministro degli Esteri francese appoggia l’indipendenza kosovara, era l’uomo dell’emergenza postbellica, imposto all’Onu dagli europei. Era il fautore dell’ingerenza umanitaria e nel suo periodo sono avvenuti i più efferati e diffusi episodi di contropulizia etnica ai danni dei serbi del Kosovo. Fu seguito da Hans Haekkerup, ex ministro della Difesa danese, che si prefisse di dare al protettorato Onu del Kosovo una costituzione. Ci riuscì, ma non fece in tempo a vederne l’applicazione: dovette ritirarsi dal Kosovo in tutta fretta a causa delle costanti minacce alla propria persona e alla famiglia. Michael Steiner, che aveva iniziato un difficile e duro confronto con i serbi e che tuttavia aveva imposto agli albanesi il rispetto della 1244 anteponendo gli standard allo status, non mantenne questa linea.
Lo stesso capo attuale di Unmik, che non fa una piega di fronte al plateale insulto all’autorità delle Nazioni Unite, deve la scarsa considerazione al suo precedente incarico di capo del Kta, l’agenzia che si è occupata delle privatizzazioni del patrimonio serbo in Kosovo e che ancora oggi è soggetta a censura e rischi di scandali. Lo stesso ex primo ministro finlandese Martii Ahtisaari, incaricato da Kofi Annan di mediare la soluzione dello status del Kosovo, non godeva di fama d’imparzialità per le posizioni antiserbe dimostrate in precedenti incarichi in Bosnia e durante la guerra in Kosovo. La sua missione era già fallita nel momento in cui partiva dal presupposto che l’indipendenza non fosse in discussione. Bisognava solo stabilire quando e a quale prezzo sarebbe stata concessa. Una posizione comune a molti altri illustri balcanisti come lo svedese Carl Bildt e il rappresentante prima della Nato e poi della Ue Pieter Feith, che così dimostrano di non avere la minima comprensione dei Balcani. I serbi hanno trattato Ahtisaari con freddezza finnica e lo hanno indirettamente accusato di essere stato comprato (letteralmente, con milioni di euro, donne e droga) dalle mafie albanesi per confezionare il piano d’indipendenza condizionata del Kosovo che porta il suo nome. Non si saprà mai se le accuse siano l’ennesima bugia totale o se, come succede nei Balcani, siano delle grandi bugie costruite attorno a una piccola verità.
Tuttavia è già una realtà che, pur non essendo stato approvato, il Piano Ahtisaari è stato adottato formalmente dal nuovo Kosovo indipendente. E questo in Kosovo e nei Balcani è già una denuncia di connivenza.
In sostanza nei dieci anni di protettorato internazionale del Kosovo la fitta rete di funzionari internazionali che si è avvicendata è stata oggetto di varie attenzioni, tentazioni, minacce e compromissioni che hanno impedito una visione serena dei fatti e della loro stessa missione. La rete dei numeri uno è stata poi influenzata in maniera determinante da quella dei numeri due e tre che si è distinta per inefficienza, spreco delle risorse, scandali e appropriazioni indebite. In questa rete vegetano e si moltiplicano gli emissari di industrie, corporazioni, organizzazioni private e governative e dagli onnipresenti agenti di molti servizi segreti tra cui spiccano i britannici ex Sas, ex Foreign Service, ex Forze speciali, ex Royal Marines, ex generali e tutti gli ex di organizzazioni e corpi dai quali non si esce mai neppure da morti. Personaggi che al termine del servizio e perfino durante il servizio attivo si dedicano allo sport di raggirare, dividere, influenzare e destabilizzare. Così, per puro divertimento e semplice profìtto personale, ma sempre con un garbo e una intelligenza che sollecitano ammirazione anche da parte di chi deve subirne gli effetti.
Se le responsabilità individuali hanno un peso significativo, quella collettiva o corporativa di alcune organizzazioni fatte esclusivamente per influenzare altre per-sone e il corso degli eventi non sono da meno. In Kosovo e nei Balcani, oltre alle centinaia di fondazioni finanziate da George Soros, ci sono pseudo istituti di ricerca, organizzazioni non governative, agenzie vagamente umanitarie che non hanno fatto che martellare le leadership mondiali sulle colpe di una parte e sui meriti dell’altra. Si sono introdotte nelle scuole, nelle università, si sono accollate studi statistici rigorosamente parziali e partigiani. L’International Crisis Group, pseudo europeo ma finanziato dagli Stati Uniti, ha schierato i più fieri e fanatici avversari della Serbia, tra cui il generale Wesley Clark, che guidava la Nato con piglio isterico durante la guerra, tra i testimoni più accreditati.
Lo stesso tribunale dell’Aia non è mai stato imparziale. La coalizione di tante, potenti e interessate organizzazioni contro la Serbia e i serbi prova che il Kosovo rappresenta una necessità per molti. Nessun paese ribelle o regime canaglia ha ricevuto il trattamento astioso che ha ricevuto la Serbia dalla comunità internazionale. I crimini efferati di molti regimi europei, africani, asiatici e perfino quelli iracheni e dei taliban non hanno ricevuto un trattamento simile. I crimini serbi sono stati enfatizzati e quelli da essi subiti sempre minimizzati se non addirittura negati. Nessuna popolazione come quella kosovara ha goduto della generosità internazionale e nessuna nazione è stata smembrata, attaccata, sottoposta a sanzioni come la Jugoslavia. In nessun’altra parte del mondo i crimini di una decina di persone sono stati riversati su tutto un popolo come è stato fatto con la Serbia.
Di questa persecuzione i serbi fanno una specie di vanto, ma sbagliano. Il Kosovo non può essere il vanto di nessuno e nessuno può usarlo come scudo delle proprie responsabilità. Semmai dovrebbe servire alla catarsi dei serbi, degli albanesi e a quella della comunità internazionale che ha assistito agli eccidi e non è intervenuta in tempo. A prescindere dall’uso che tutte le organizzazioni vorranno fare del Kosovo e di tutti gli affari che vorranno sviluppare, questa terra rappresenta sempre la cattiva coscienza di molti.
Anche noi italiani abbiamo molto su cui riflettere. Siamo stati più equilibrati e comprensivi di altri, ma anche pigri e disattenti. Il nostro ministro degli Esteri, Dini, uscendo dai colloqui di Rambouillet dichiarò che le condizioni imposte ai serbi erano soltanto un pretesto per fare la guerra. Aveva ragione, ma il suo monito non fu colto da nessuno. Il primo ministro D’Alema si è allineato alle posizioni più avanzate della Nato in fatto di disciplina delle intelligenze e ha sostenuto la guerra alla Serbia sposando in pieno le tesi dell’ingerenza umanitaria, della catastrofe umanitaria, della guerra umanitaria e della contropulizia etnica a scopi umanitari. Se qualcuno si fosse premurato di fargli vedere le brevi note biografiche di quelli che in Kosovo stavano accumulando le prove delle varie catastrofi avrebbe avuto qualche dubbio in più. Nei Balcani, per conto di prestigiose e imparziali organizzazioni come l’Osce, si aggiravano improbabili ambasciatori e negoziatori con precedenti missioni in Nicaragua, Honduras e ogni posto del mondo dove al loro apparire si formavano squadroni della morte. Gruppi di verificatori imparziali provenivano dai ranghi della Cia ed erano assoldati da compagnie di mercenari. Sul cosiddetto massacro di Raçak che determinò il fallimento di Rambouillet e quindi l’inizio della guerra si poteva capire il disgusto iniziale, ma il fatto che la patologa finlandese che aveva avallato a parole la tesi del massacro non avesse mai depositato e pubblicato i risultati degli esami avrebbe dovuto far sorgere qualche dubbio almeno negli otto anni successivi.
Non c’è mai stata nessuna inchiesta seria e quindi quando lo stesso D’Alema si trova a essere ministro degli Esteri al momento della dichiarazione unilaterale d’in-dipendenza la disciplina delle intelligenze torna a farsi prepotente. Il nostro governo (battuto e tenuto in carica per gli affari correnti), a Camere sciolte, si affretta a riconoscere l’indipendenza del Kosovo, con tutto quel che ne consegue. Come se il riconoscimento di un nuovo Stato, nelle condizioni di eccezionaiità e unicità volute dallo stesso Thaçi, fosse un affare corrente. Giustamente i serbi e i giuristi internazionali non sono molto contenti. Ma Thaçi, Xhavit Haliti, Paçolli e i loro amici commossi ringraziano: Viva l’Italia!
Chi conosce i due milioni di cittadini kosovari per bene sa che tutta questa sfida, il sarcasmo, l’ingiuria e il disprezzo per la comunità internazionale messi in evidenza in maniera solenne ed elegantemente compassata da un giovane terrorista del 1997 divenuto nel 2008 giovane primo ministro di una istituzione provvisoria i cui atti sono sottoposti al veto di un distratto funzionario straniero non è farina proveniente dal sacco kosovaro. Certo, dopo un decennio di guerre, mala amministrazione, compromessi, ricatti, appropriazioni indebite e inefficienze delle organizzazioni internazionali che si sono coalizzate in Kosovo, ci sono due milioni di scontenti, di delusi, di gente che non crede più negli altri e neppure nei propri capi. C’è gente che insegue il mito dell’indipendenza per voltare pagina e per mandare a quel paese chi non ha provveduto né alla sicurezza né al benessere né all’integrazione e meno che mai alla coesistenza. C’è gente che capisce benissimo che in questi dieci anni è stato fatto di tutto in Kosovo, in Serbia, in America, in Europa e nel mondo per esasperare i nazionalismi, per favorire gli estremismi e per disarticolare qualsiasi motivo di ragionevole coesistenza pacifica. Ma è gente che non avrebbe mai voluto che la propria indipendenza formalizzasse l’arroganza: che stabilisse con atto unilaterale l’eccezionalità e la diversità dei propri diritti e doveri di fronte a quelli degli altri popoli e a quelli che regolano il sistema al quale vuole e ha diritto di accedere. Avrebbe preferito trovare un accordo qualsiasi piuttosto che entrare da banditi in un mondo sfasciato.
gente che non meritava di passare dalla schiavitù di un regime finito, condannato e liquidato dagli stessi cittadini serbi a quella di un’amministrazione internazionale inefficiente. E oggi non merita di passare alla schiavitù di manovratori occulti e bande criminali che non si curano né di quello che hanno passato né di quello che li aspetta. E la fotografìa di ciò che aspetta questa gente per bene non è incoraggiante.
Il Kosovo ha ancora una volta diviso il mondo e ha già esasperato le posizioni di molti paesi che dovrebbero invece partecipare al suo inserimento in Europa e nel mondo. Fino a questo momento le Nazioni Unite non si sono pronunciate sull’indipendenza. I membri permanenti del Consiglio di Sicurezza con diritto di veto sono due (Russia e Cina) contro tre (Francia, Stati Uniti e Gran Bretagna). Ne basta uno per tenere il Kosovo nel limbo infinito. Nel primo mese d’indipendenza, su 192 Stati membri hanno riconosciuto il Kosovo finora in 29. Su 27 Stati dell’Unione Europea l’hanno riconosciuto in 16, su 26 della Nato in 15 e su 57 della Conferenza Islamica in 5. Altri se ne aggiungeranno, alla spicciolata, ma in un mondo di aggregazioni se ciascuna delle organizzazioni come le Nazioni Unite, l’Osce, la Nato, l’Unione Europea e la Conferenza Islamica dovesse emettere una mozione unitaria per riconoscere il Kosovo indipendente da qui a dieci anni non ci riuscirebbe.
Il Kosovo ha bisogno di tutto e con lo strappo dell’indipendenza ha più che mai bisogno di risorse, tutela e controllo. Cose che l’Europa e gli altri organismi internazionali non sono in grado di dare. Se avessero avuto questa capacità sarebbero riusciti a gestire e traghettare il Kosovo e i Balcani in Europa nei dieci anni in cui hanno avuto carta bianca e poteri assoluti. Ma anche le grandi potenze non sono in grado di assicurare altro che una forza da bombardamento. Gli Stati Uniti hanno smarcato il Kosovo. Questione finita. Ora serve agli affari e alla ri-balcanizzazione dei Balcani. Come la Bosnia, la Macedonia e prossimamente la Serbia. Anche i paesi europei tendono a chiudere la questione e a dimenticarla in fretta. In questi anni di dibattito infinito si sono sentite tutte le campane e una delle più stonate ha suonato in Europa. Qualcuno ha provato a far credere che l’indipendenza del Kosovo sia un favore fatto alla Serbia stessa e all’Europa: visto che si tratta di un ”buco nero” geopolitico, di un incurabile tumore nel ventre serbo e nel retto dell’Europa, tanto vale isolarlo e tagliarlo a colpi di bisturi e poi procedere a un massiccio bombardamento chemioterapico a suon di polizie europee e internazionali per bloccare le metastasi. La soluzione della metafora oncologica sarebbe perfettamente plausibile, ma sfortunatamente il retto europeo non corrisponde al ventre serbo ma al cuore. E poi non è detto che uccisa la Serbia con l’accanimento terapeutico o l’eutanasia le polizie che non riescono a controllare quattro bande albanesi a Milano o a Francoforte siano capaci di controllare i grandi clan.
La letteratura criminale sul Kosovo lo definisce centro di smistamento di traffici illeciti, di droga, armi, organi umani, persone, e di qualsiasi cosa possa essere contrabbandata. Gli stessi servizi d’intelligence che fino a ieri erano pronti a giurare sulla buona fede dei capi banda e capi clan oggi li additano come responsabili di molti crimini. I servizi britannici hanno dato e continuano a dare un credito illimitato a personaggi che sanno essere impresentabili. Ne hanno coperte le malefatte durante la guerra e continuano a concedere protezione in nome di una balcanizzazione del Kosovo e del mondo intero. Quelli statunitensi, che pure per primi avevano intuito e denunciato la natura criminale dei movimenti dell’Uck, sono passati presto a cancellare l’organizzazione dalla lista dei terroristi e poi si sono convertiti alla dottrina della liberazione quasi esclusivamente per impedire la formazione di una nuova Jugoslavia in chiave di Grande Serbia. Non hanno avuto esitazione nel sostenere l’idea se non proprio il progetto di una Grande Albania prima e, quando poi questa sembrava troppo persino per gli albanesi, sono passati al Grande Kosovo. E intanto vengono alla luce le compromissioni politiche e affaristiche di esponenti di rango statunitensi con la corruzione kosovara.
I servizi tedeschi si sono spesi fin dai primi anni della crisi in favore della punizione della Serbia e della Jugoslavia in generale. I motivi umanitari erano ridicoli di fronte a quelli di politica interna. La Germania del periodo della riunificazione non poteva letteralmente sostenere a lungo il peso a volte ricattatorio di una comunità albanese e kosovara consistente. Da almeno quattro anni e in particolare da quando Kfor ha messo a punto il sistema integrato d’intelligence sulla criminalità e la violenza di ogni tipo i servizi tedeschi sembrano essere attivi nel denunciare le connessioni politico-criminali dei maggiori leader kosovari albanesi. probabilmente l’ennesimo gioco delle parti al quale ci hanno ormai abituato le intelligence di tutto il mondo, o forse il tentativo di correggere una tendenza che si va facendo sempre più pericolosa man mano che il potere extraistituzionale si consolida in potere istituzionale. Fatto sta che la Germania, al pari di Stati Uniti, Gran Bretagna e Italia non ha avuto esitazioni nel riconoscere la dichiarazione unilaterale d’indipendenza del Kosovo. Forse al pari degli altri tre paesi non ha potuto dire di no alle pressioni degli Stati Uniti che oggi più che mai hanno bisogno di un’iniezione di fiducia proveniente da un popolo balcanico e formalmente islamico che li ritiene liberatori. Un molo, questo, preferito dagli americani di sempre e che si è frantumato in Afghanistan e in Iraq, e sta frantumandosi anche nel resto del Medio Oriente, in Asia centrale, nel Caucaso, in Africa e perfino in Europa.
Ogni accusa e sospetto di connessione politico-criminale nei Balcani ha un fondamento di verità. Tutto quello che si dice del Kosovo è vero, ma non esclusivo. Le stesse cose avvengono in Albania, Romania, Macedonia, Serbia, Bosnia, Bulgaria, Grecia e perfino Italia. Il Kosovo è la terra del potere dei clan familiari.
Vero, ma è lo stesso modello della nostra ”ndrangheta, della camorra e della mafia come noi stessi vogliamo che siano dipinte. la terra della sovrapposizione tra politica, economia e criminalità. vero, ma il modello kosovaro impallidisce e fa tenerezza in confronto a quello russo, a quello italiano e a quello di molti Stati, non-Stati e organizzazioni internazionali governative e non governative pubbliche e private. Se poi sostituiamo il termine criminalità con i sinonimi più politicamente corretti di illegalità, illecito, violazione ed elusione delle leggi e corruzione possiamo vedere che i modelli di concentrazione coincidono con le politiche ufficiali degli stessi Stati Uniti, della Unione Europea, della Russia e della Cina, tanto per fermarsi ai più evidenti.
Il Kosovo non ha neppure l’esclusiva della violenza bruta applicata alla lotta politica anche con i suoi primati di decine di delitti politicamente motivati ai danni quasi esclusivi del partito dell’ex presidente Rugova. Ma al Kosovo va riconosciuto il merito singolare di aver consentito la sopravvivenza e la prosperità di gruppi politici, economici e criminali all’interno di una amministrazione internazionale che è stata costantemente tenuta in scacco e ricattata.
I traffici illeciti di ogni tipo che passano per il Kosovo non determinano di per sé la natura di uno Stato mafia o fallito. E neppure di uno Stato che vuole essere isolato e dimenticato. Il Kosovo deve la sua forza alla rete che dai clan e dalle famiglie della Drenica, di Pec, Prizren e Pristina si dirama in tutta Europa e oltre.
Il Kosovo non deve essere al servizio delle famiglie, ma deve legittimarne il potere nel mondo. E qui si è inserita l’altra sfida implicita e sarcastica della dichiarazione dell’indipendenza, che chiede l’intervento della polizia europea, delle intelligence di tutto il mondo e dell’Interpol in Kosovo. Che ne auspica il potere e la connessione con le strutture del nuovo Stato. Come a significare che i clan che hanno gestito la guerra tra bande e mafie internazionali sotto Tito e Milosevic, che hanno assoldato inglesi e americani e gli stessi aerei della Nato per i propri interessi, che sono riusciti a compromettere e neutralizzare tutti i più alti rappresentanti internazionali e qualche generale della Nato possono permettersi di neutralizzare e anzi sfruttare le infinite risorse, conoscenze e informazioni che può garantire quell’alternanza di poliziotti, funzionari e magistrati che a contratto semestrale vanno a prendere aria in Kosovo. Ed è questo auspicabile flusso che può garantire la preservazione del potere. Senza cambiare pagina.
Eppure proprio dalle mille pecche e assurdità della dichiarazione d’indipendenza e dai sentimenti della gente per bene di ogni etnia viene lo stimolo a rifiutare la logica dei processi irreversibili, specialmente quando sono sbagliati. Se il Kosovo non è alla fine di un percorso e non è neppure all’inizio di un nuovo corso, il processo di trasformazione è in stallo ed è destinato all’entropia, al collasso istituzionale e strutturale. Si può ancora voltare pagina e questa volta si può puntare sulla legalità e sul dialogo.
Fabio Mini