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 2016  novembre 12 Sabato calendario

«Fu Cuccia a insistere: perché non compra azioni Montedison?»

• «Fu Cuccia a insistere: perché non compra azioni Montedison?». CorrierEconomia 29 maggio 2006. Il racconto di Cefis sui rapporti con Valerio e Girotti «In Foro Bonaparte facevamo trading su tutto» MemorieLa prima repubblica Domanda. Negli anni sono stati scritti diversi libri sulle sue gesta. Ha avuto modo di leggerli? Risposta. «Guardi, io andavo in hotel all’ Eden se a Roma o a casa di Mattei a Milano alle 7 di mattina e stavo lì fino circa alle 8,30. Poi lui andava in ufficio, leggeva la rassegna stampa e regolarmente si irritava di brutto. Come conseguenza non gli si poteva parlare più di lavoro per un bel po’ di tempo. Conclusi allora che bisognava evitare in ogni modo di farsi condizionare nei comportamenti dando troppo spazio ai giudizi e alle osservazioni degli altri, soprattutto se espressi dai giornali quotidiani. Per cui ho in libreria una cinquantina di libri che parlano di me, ma non ne ho letto nessuno. Non mi faccio influenzare. Sono rimasto del parere che non si può fare il presidente di una grande compagnia in modo sereno e rilassato se si sta a leggere la rassegna stampa come prima cosa, prima di mettersi al lavoro. Del resto, da giovanissimo, Mattioli mi raccomandava: "Non ti far incastrare, quello che leggi sui quotidiani vale di solito 24 ore"». D. Lei quei libri non li avrà letti direttamente ma qualcuno le avrà riferito cosa c’ è scritto... R. «Non ho mai amato i giornalisti che ho sempre chiamato"pennivendoli". In Eni noi ci eravamo fatti fare da un giurista, il professor Delitala, uno schema di delibera di consiglio, una paginetta e mezzo che delegava al presidente i poteri per stabilire ed erogare fra le spese varie quelle per la pubblicità commerciale e per la così definita "pubblicità redazionale" e in questo modo potevamo liquidare le fatture dei giornalisti, ma era tutto in chiaro e ben regolamentato. Mattei pensava che fosse meglio "comprare" i giornalisti che non "mantenere i giornali", riteneva così di poter risparmiare. Io non ho mai condiviso questa tesi e ho fatto il contrario. I giornalisti ti usano come una tartaruga, ti fanno mangiare una polpetta con dentro un gancio e poi tirano. Persino Agnelli ogni tanto ha avuto articoli con tanto di calci negli stinchi. Quando presi il posto di Mattei chiusi i finanziamenti per sei mesi». D. In questi lunghi anni ha mai pensato che la scalata alla Montedison fosse stato un errore? R. «Mi scusi, ma che domanda è? Il ciclo è quello petrolchimico, né solo petrolifero né solo chimico o lo si completa in tutto il suo arco o si rinuncia a estrarre il valore che ha. Se tratti solo la benzina, il gasolio e l’ olio combustibile e non controlli l’ intera catena dall’ esplorazione alla pompa di benzina non riesci a tirar fuori da quel business tutto il grasso, il valore che può produrre. Fu Cuccia a insistere: "Perché non compra azioni Montedison?". La gestione Valerio gli aveva creato dei problemi. Personalmente ho sempre sostenuto che non c’ era motivo perché Eni e Montedison dovessero litigare. Finché in Foro Buonaparte c’ erano Faina e Giustiniani il discorso fu portato avanti. Con Valerio si interruppe. Pensi che in una fase di conflitto aveva cominciato addirittura a costruire una rete di stazioni di servizio carburanti». D. Valerio però è ricordato come una delle vittime della sua ascesa. R. «Valerio aveva un difetto tipico degli ingegneri, pensare che due più due fa sempre quattro. Nella vita non è sempre così. Faina era più pragmatico. Comunque le rivelerò un fatto importante: mentre tutti credevano che Valerio ed io ci facessimo la guerra, noi siglammo un accordo che era depositato presso il senatore Nencioni. Io penso che tutte le volte che tra competitori si possono fare delle intese, senza stravolgere le regole della concorrenza, si evita di buttar soldi. Fare delle guerre inutili o perse in partenza è una sciocchezza. Uno dei miei autori preferiti, von Clausewitz, lo spiega benissimo. Detto questo con Valerio gli scontri ci sono stati. Era sprezzante, aveva il piacere di essere sgradevole e litigare per lui era uno modo per imporsi». D. Ma lei non aveva criticato Mattei per le avventure chimiche? R. «Quella di Mattei era chimica politico-occupazionale, tutta un’ altra cosa». D. Quando prese le redini della Montedison lei cercò di entrare nella chimica fine e contenere il peso della petrolchimica. R. «Operazione facile da dire, difficile da fare. Io l’ ho perseguita nel limite del possibile. Altro atteggiamento aveva Rovelli. Non gli importava di detenere il controllo dei processi, si limitava a copiare i brevetti degli altri. Comunque le dirò che per quanto mi abbia avversato ho trovato sempre difficile litigare con lui. Anzi non ci sono riuscito. Tornando alla chimica i laboratori Eni a San Donato erano avanzati, io ho tentato di fare delle cose interessanti ma i processi sono lenti. Non dimentichi che l’ Italia in chimica era zero. Nei cassetti e nelle casseforti della Bayer c’ erano brevetti che sarebbero stati usati anni dopo. Un brevetto lo sfruttavano al massimo e solo dopo ne tiravano fuori uno nuovo». D. Una delle persone che ha lavorato più a lungo con lei fu Raffaele Girotti. Un rapporto che alla fine si guastò tanto che si narra che Girotti avesse tentato addirittura di scalare la Montedison. R. «Fu io a porre come condizione al mio passaggio in Montedison che fosse Girotti a prendere il mio posto in Eni, era stato uno dei fondatori. Prima ancora lo aveva mandato in Montedison come vicepresidente operativo. Insomma abbiamo viaggiato in tandem per tantissimi anni, poi per motivi che non conosco il rapporto si è incrinato». D. Durante la sua presidenza Montedison ci fu lo shock petrolifero che sconvolse i prezzi e rese più difficile ogni operazione di rinnovamento della chimica. Determinò anche la sua uscita? R. «Sicuramente fu una tempesta che ci prese a metà del guado. Ma eravamo abituati alle battaglie e non ho perso il sonno nemmeno in quella occasione. Non c’ è nessuna relazione tra gli effetti nefasti dello shock petrolifero e la mia uscita dalla Montedison. Ero stufo di amministrare le cose degli altri». D. Negli anni della sua gestione la Montedison si caratterizzò per l’ innovazione finanziaria a tutto campo. R. «Per merito di Giorgio Corsi si affermò una mentalità Montedison di fare finanza. Gli utili venivano da questa gestione e non da quella industriale. Era un’ operazione tutta cerebrale. Facevamo trading su tutto, dalle valute all’ oro fino alle merci. Lo facevamo per suddividere il rischio. I primi dividendi li pagammo così, con le operazioni finanziarie». D. Che giudizio ha maturato in questi anni sul processo di privatizzazioni che ha investito le Partecipazioni Statali negli ultimi due lustri? R. «Le confesso che ho seguito poco tutta la vicenda delle privatizzazioni. Penso che lo Stato faccia bene a intervenire in settori i cui investimenti presentano tempi di rientro lunghissimi. Vedi i porti, le infrastrutture. In questi casi il rischio per il privato è troppo alto perché si trovi qualcuno disposto a correrlo. Il Brill, il lucido per scarpe oppure l’ industrializzazione leggera della Sardegna invece non dovrebbero competere allo Stato. Ci sono stati investimenti al Sud coperti dall’ 85% da sovvenzioni erogate cash e concesse dopo il solo parere di conformità. Mi ricordo che per la lana di vetro c’ era un fabbisogno italiano di 10 mila tonnellate l’ anno circa e furono concessi finanziamenti a diversi investitori che complessivamente ne avrebbero prodotti 30 mila o più. Comunque a mio parere il potere politico hanno sempre faticato nel prendere le decisioni giuste per rispettare un serio sviluppo industriale del Paese». D. Può fare un esempio? R. «Più che un esempio, le racconterò un caso-limite. Avevamo un impianto a Ravenna e ci eravamo andati perché c’ era il metano a due passi nel sottosuolo. Il politico numero uno di Ravenna era allora l’ onorevole Benigno Zaccagnini, che in quel frangente era anche ministro dei Lavori Pubblici. A noi serviva di dragare il canale navigabile già esistente, renderlo percorribile anche per navi da 10 mila tonnellate. Tenga presente che per quella zona si trattava di un’ opportunità di sviluppo, altrimenti l’ economia locale sarebbe agricoltura da palude. Vado da Zaccagnini per chiedergli i permessi e lui mi risponde "come faccio ad autorizzare un lavoro proprio nella mia zona elettorale?". Gli rispondo che non potevamo utilizzare in eterno le bettoline per caricare fertilizzanti, portarli nel porto di Marghera, trasferirli su navi da carico di almeno 10 mila tonnellate e farli viaggiare con un costo economico proibitivo fino ai lontani porti della Cina. Non se ne fece niente. E allora mi viene da dire che è meglio un ministro che chiede sovvenzioni ma realizza il canale, di uno che fa quei ragionamenti. Se la pensa così eviti di fare il ministro dei Lavori Pubblici». D. E di Amintore Fanfani, il politico che le fu più vicino, che ricordo ha? R. «Se mi permette una battuta era una persona che valeva tanto oro quanto ne pesava. Quando uno usciva da un colloquio con Fanfani sapeva esattamente cosa volesse in termini operativi, con Moro sicuramente no. Per lungo tempo è stato il mio azionista di riferimento anche se i nostri rapporti, visto il suo carattere, non sono stati sempre rose e fiori. Era più che sveglio, ti faceva capire subito come la pensava. Comunque di lui ho un ricordo piacevole. Ho avuto con lui relazioni dialettiche e costruttive,considerava noi dell’ Eni i figli discoli delle Partecipazioni Statali. Quando si parlava con Fanfani di politica estera dell’ Eni, specie di iniziative nel Terzo Mondo, lo si pettinava dal "verso del pelo"». D. Con Andreotti invece lei non è mai andato d’ accordo anche perché rappresentava il retroterra politico di Rovelli. R. «Una volta gliel’ ho detto anche a lui il perché. Quanto a Rovelli tutto il mondo politico era il suo retroterra. Avevamo ministri e uomini politici che guardavano i nostri concorrenti privati con benevolenza e tutto ciò mi dava fastidio. Il processo Imi-Sir ne fornisce un esempio». D. Si è sempre detto che lei coltivasse progetti autoritari, neo-gollisti. Cosa c’ era di vero? R. «Erano giudizi che mi sono stati affibbiati da una propaganda che una volta si usava definire "falsa e tendenziosa" e che comunque, in realtà, erano radicalmente differenti dalle cose che pensavo e che ho fatto. Il motto del nostro raggruppamento partigiani Alfredo Di Dio era "Patria e libertà". Posso dire per altro che ho chiesto a tanti miei partigiani di rischiare la vita per una Repubblica democratica. Bene, se avessi saputo che la Repubblica sperata era quella di oggi, francamente mi sarei astenuto dal farlo. I migliori tra quelli che ho conosciuto sono stati sicuramente i comunisti, mi riferisco alla generazione dei Luigi Longo e degli Amendola». (Continua) Dario Di Vico
• «Non ho mai capito di che golpe parlasse Cuccia». CorrierEconomia 5 giugno 2006. Quest’ intervista-documento è il frutto di lunghi colloqui con Eugenio Cefis avvenuti tra Lugano e Milano nell’ autunno del 2002. La prima tranche, riferita agli anni di Mattei, è uscita sul Corriere della Sera il 6 e il 7 dicembre 2002. La seconda tranche, quella che abbraccia i ricordi di Cefis dagli anni della Montedison fino ai giorni nostri, per espressa volontà dell’ anziano manager, sarebbe dovuta uscire postuma. Così è stato: Cefis è scomparso a Lugano alla fine di maggio del 2004 e a due anni di distanza abbiamo iniziato, lunedì scorso, a pubblicare il testo da lui rivisto. Ai colloqui ha sempre assistito un ex dirigente Eni e grande amico di Cefis, Camillo D’ Amelio, che oggi risiede a Milano. *** Domanda. Nelle sue memorie l’ agente di cambio Aldo Ravelli sostiene che lei lasciò la ribalta perché temeva di essere arrestato. Risposta. «Le rispondo che durante il periodo partigiano ho temuto molte volte di essere arrestato... Non solo, ma anche di essere fucilato. Allora, almeno per quelli della mia età, esisteva il solo partito fascista prima e fascista Repubblicano poi. Ero in Jugoslavia a combattere Tito, come ufficiale del secondo Granatieri di Sardegna ed avevo un attendente di oltre 40 anni. Da lui per la prima volta sentii dire "sono comunista". Per noi la politica non esisteva. Oggi non è più così. Comunque mi ritengo una persona aperta alle idee degli altri, non sono una persona sempre sicura di essere il depositario della verità rivelate. Una personalità assai diversa da come mi pare sia stata raccontata. Finita la guerra feci praticantato dall’ avvocato Rolle che usava raccomandarmi: "Cefis se hai cinque lire compra cinque lire di fiducia in te stesso"». D. Cuccia non prese bene la sua decisione di lasciare. R. «Stette zitto un mese o due. Poi venne a trovarmi nel mio studio privato a Milano e me ne disse di cotte e di crude. Che l’ avevo lasciato solo come un birillo tra le bocce. Replicai "ma che senso ha insistere in una battaglia se la si è già persa? una stupidaggine". Come sosteneva von Clausewitz...». D. Si racconta che Cuccia avesse detto "pensavo che Cefis facesse il golpe e invece se n’ è andato". R. «Venne a dirlo anche a me e io gli risposi "ma lei è matto". Quando e come le ha dato la sensazione che stessi preparando un colpo di Stato? A quanti andavano facendo in Italia discorsi vagamente autoritari io replicavo di togliersi dalla testa che da noi ci potesse essere un golpe appoggiato dall’ esercito. un paese lungo dalle Alpi alla Sicilia e le poche divisioni efficienti che avevamo erano tutte su, ai confini con la Jugoslavia. Ci sarebbero volute quattro-cinque settimane per concentrarle tutte al Nord, se ne sarebbero accorti tutti. Sono cose da operetta». D. Ma lei si è dato una risposta: come mai Cuccia la pensava così? R. «Forse pensava a un golpe non militare. Nemmeno Mussolini era riuscito a neutralizzare, l’ establishment laico-massonico italiano, che per un lungo periodo aveva retto le fila della finanza. Forse Cuccia pensava che potessi fare qualcosa di equivalente in campo imprenditoriale. Tenga presente che lui era stato fuorviato dall’ aver visto in Africa muoversi l’ Eni, con autorità e successo. Risultato: Cuccia mi ha detto che l’ avevo tradito. Mattei mi avevo detto lo stesso quando ero andato via dall’ Eni, "è come se mi avessero tagliato il braccio destro" affermò». D. In cambio dell’ appoggio che Mediobanca le aveva dato per entrare in Montedison lei cedette il pacco di azioni Generali che era in portafoglio a Foro Buonaparte. Nacque così l’ Euralux, la società lussemburghese decisiva per tenere il Leone di Trieste sotto il controllo dell’ asse Generali-Lazard. Andò proprio così? R. (Cefis chiamò la segretaria e sfogliò una cartellina con stampigliata la parola Euralux. Lesse gli appunti a mano di Enrico Cuccia). «Si andò così. Ma facemmo tutto per bene, qui ho ancora l’ autorizzazione del ministero del Commercio estero e del Governatore della Banca d’ Italia». D. Si è pentito di aver lasciato a 56 anni, un caso più unico che raro? R. «No, avrei dovuto farlo cinque anni prima. Appena messa a posto la Montedison dovevo tornarmene a casa. Mi ero fatto incastrare dal mio senso del dovere. Avevo deciso da tempo di non occuparmi di aziende conto terzi oltre i 50 anni. Cuccia, Mattioli, Merzagora che mi ripetevano fino alla noia "hai messo a posto l’ Eni, ora perché non ti occupi per cinque-sei anni alla Montedison? C’ è il rischio di bancarotta, e Milano senza la Montedison è morta". Ma io non avevo alcun interesse e voglia di farlo». D. vero che lei dopo essere uscito dalla Montedison consigliò a Cuccia di puntare su Carlo De Benedetti? R. «Sì, era una persona che stimavo. Avevo visto come si era mosso, aveva una marcia in più. Feci il suo nome a Cuccia. Del resto noi come Eni avevamo avuto sempre buoni rapporti con l’ Olivetti, fin dai tempi di Adriano. E De Benedetti "busciava", si faceva sentire. Poi si vende bene». D. Ci racconta i suoi rapporti con i Rizzoli? R. «Ero amico del vecchio Angelo Rizzoli. Lui aveva comprato mezza Ischia e io ero solito fare i fanghi a Lacco Ameno. Lui veniva lì e mi rovinava i nove giorni di cura. Voleva che gli vendessi Il Giorno. Segni me l’ ha promesso, diceva. E io gli rispondevo: "Non posso vendertelo, me lo impediscono tutti i politici messi insieme". Con me il quotidiano milanese era neutrale, in mano a un privato chissà. Davo al mondo politico garanzie di imparzialità. Segni mi diceva sempre "fai quello che vuoi, ma Il Giorno non lo vendere mai". Poi c’ era Italo Pietra alla direzione e per me sostenerlo era un’ obbligazione morale». D. Lei poi aiutò Rizzoli figlio a comprare il Corriere della Sera. E in cambio chiese di cambiare il direttore di allora, Ottone. R. «Ho garantito per Angelo, ma non è vero che abbia avuto problemi con Ottone. E non mi pare che lui ce l’ abbia con me, a leggere i suoi libri. Quanto al Corriere ricordo di aver mollato i contatti successivamente e comunque dei problemi con la stampa per me se ne occupava Pietra». D. Ha conosciuto Gelli? R. «L’ ho visto una sola volta su richiesta di qualche ministro... Ero presidente di Montedison. Mi fece una tale impressione negativa che quando, dopo averlo incontrato, sono tornato nel mio ufficio di Roma telefonai subito a chi me lo aveva raccomandato e gli dissi di averlo trovato mellifluo. Allora parlar male di Gelli era peggio che parlar male di Garibaldi cento anni prima...». D. Che giudizio ha maturato nel tempo sul suo successore Mario Schimberni? R. «Positivo. Un vero "sedere di pietra". Se non ricordo male l’ ho portato io in Montedison... Fu Imbriani Longo che allora faceva il commissario della Bpd a segnalarmi Schimberni e Cesare Romiti, disse "qui da me ci sono due cavallini di razza". Schimberni aveva il senso della gerarchia, bravissimo nella gestione finanziaria e amministrativa. Il suo progetto di realizzare con Montedison una public company è stato il suo disastro. Una volta gli dissi "Schimberni lei è andato fuori di testa". Perse il senso del limite quando tentò di comprare azioni proprie. Aveva tenuto stretto il rapporto con Cuccia poi ha pensato di rendersi indipendente». D. Quali altri presidenti dell’ Eni ha conosciuto? R. «Gabriele Cagliari era il mio assistente all’ Anic di Ravenna. Faceva parte di quella covata di dirigenti che venivano chiamati "la legione straniera" per distinguerli dai primi corsisti di Mattei, "i soci fondatori". Avrebbe potuto far bene all’ Eni se le circostanze tragiche non avessero interrotto la sua presidenza». D. Abbiamo parlato di partecipazioni statali. Che giudizio ha di un manager che ne ha calcato le scene per anni, Romano Prodi? R. «Lo conosco poco. Come consulente per i problemi economici e finanziari è forse il numero uno in Italia e in Europa. Come capo operativo di un’ impresa è tutto da vedere. Come politico mi pare che sia un uomo di centro». D. Oggi lei è molto ricco? R. «Faccia i conti lei. Pago un milione di franchi svizzeri l’ anno di tasse e qui in Svizzera bisogna dichiarare sia il reddito sia il patrimonio, non si scappa. Possiedo delle piccole aziende, una che opera nel campo del controllo satellitare. Nel Nord America e in Canada ho venduto tutto da molto tempo. E poi sono un azionista della Finarte cui tengo molto. Sono stato uno dei fondatori insieme ai Manusardi». D. Volgendo lo sguardo indietro alle grandi battaglie che hanno diviso il capitalismo italiano alla fine chi ha vinto secondo lei? R. «Hanno perso tutti, pure gli Agnelli hanno perso. Se avessero venduto la Fiat quaranta anni fa si sarebbero goduti tanti soldi. L’ Italia è un paese in declino. Viene da dire che la situazione è tragica ma non seria. Quando vedo che Forza Italia è al potere con il voto quasi plebiscitario degli elettori, vuol dire che agli italiani sta bene così. Mi domando che razza di Paese sia l’ Italia di oggi». D. In Italia in questo momento l’ espressione «declino» è molto usata. R. «Perché non è così? Il Paese sta proprio declinando. Devo dire che lo avevo previsto con largo anticipo... Davano a me del gaullista, ma come poteva andare avanti un’ azienda Italia con governi che duravano in media otto mesi e il tutto nell’ anticamera della globalizzazione». D. Lei ha avuto sempre scarsa considerazione degli industriali privati italiani. R. «Non di tutti. Agnelli mi è stato sempre simpatico. Da giovane quando arrivava con il bimotore inglese, la colombina, guidavo un po’ io un po’ lui. Tra gli imprenditori privati c’ erano tanti Rovelli, tanti a cui il governo regalava i soldi bastava che tirassero su un muro di cinta». D. Non abbiamo avuto una classe dirigente all’ altezza, dunque? Fuori dalle frontiere patrie chi ammira? I Kohl, i Blair, gli Chirac? R. «Ho sempre ammirato la classe dirigente russa, tutte persone di grande livello. Il capo del loro settore petrolifero avrebbe potuto benissimo essere il numero uno alla Shell o alla Esso. La selezione dei dirigenti russi era serissima e devo sottolineare non ho mai trovato uno che si sia sporcato le mani. Le loro case assomigliavano ai nostri alloggi popolari. Ho avuto sempre grande rispetto di quel mondo. Breznev, mi piace ricordarlo, gradiva tutt’ al più in regalo un giubbotto da caccia e Kossighin, un grande amico dell’ Eni, mi aveva chiesto una foto di Mattei e gliene portai una - con la cornice d’ oro - che lui si è messo in bella evidenza sulla scrivania nel suo ufficio al ministero. E guardi se c’ è stata una sola persona, ai tempi della Resistenza, che ha sempre tenuto a differenziarsi dalle brigate comuniste, sono stato proprio io. Non può immaginare quante volte abbiamo fatto a botte con le brigate comuniste di Cino Moscatelli quando gli americani "sbagliavano zona" dei loro lanci aerei. "Loro" portavano al collo il fazzoletto rosso con la falce e il martello, noi quello blu con le mostrine tricolori e le stellette militari. Comunque a conclusione di questa chiacchierata mi faccia dire che chi non ha visto l’ Italia di prima del 25 aprile non potrà mai capire cosa è stato Mattei. Allora non c’ era un ponte in piedi in tutta l’ Italia del nord, non una stazione ferroviaria di una certa importanza era ancora intatta. Il centro di Milano ridotto a un ammasso di rovine. E se il "miracolo italiano", come allora fu chiamata la rapidissima ricostruzione del Paese, fu reso possibile, nell’ Italia del nord anche dalla rapida rete dei metanodotti realizzata da Mattei per la distribuzione capillare dell’ energia». D. Posso chiederle per chi ha votato alle ultime politiche? R. «Ho votato per il centro. Seguo con interesse Casini: matura bene, voterei lui. Ad Arolo invece voterei per l’ amministrazione di sinistra che ha ben governato. Comunque si può dire tutto della Dc, ma senza lo scudocrociato saremmo diventati tutti comunisti, ma non quelli di oggi quelli ante Muro». (Fine) Dario Di Vico